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RSI:empasse tra diritto internazionale e sensibilità sociale.

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Messaggio  0000725652 Sab Apr 02, 2016 1:39 pm


Sia in campo nazionale sia in campo internzazionale la RSI è concepita come soft law, dunque non giuridicamente vincolante ne tanto meno coercitivi, proposta sottoforma di strumenti meta-giuridici come: codici di condotta, raccomandazioni che vedono la propria esistenza grazie una spontanea adesione.
La pluralità di fonti internazionali eterogenee e non vincolanti in un contesto di mercato globale - molto volubile nella sua forma - fa si che sia difficile trovare una soluzione vincolante.
Un sistema di Hard Law che permetterebbe una possibilità di rendere lo strumento di RSI vincolante almeno a livello statale, ma questo comporterebbe una cristalizzazione parziale della sensibilità sociale, necessitando così di strumenti più complessi per un suo mutamento. Complessa è la creazione di n sistema di hard law a livello internazionale sia perchè i temi trattati non trovano una comune sensibilità sociale, sia perchè in un contesto di mercato globalizato le sensibilità sono volubili. Considerando pure tale sistema internazionale troverebbe valenza vincolante solamente tra stati firmatari, senza però aver valenza rispetto a stati terzi. questo comporta una possibile elusione di norme di codeste norme vincolanti tramite i rapporti degli stakeholders di paesi non firmatari.
Un problema molto complesso che tutt'ora vede una difficile soluzione, che però potrebbe partire da un dialogo tra le fonti tra cui le Guidelines dell’OCSE, la Tripartite Declaration dell’OIL, il Global Compact, le Norme e i “rapporti Ruggie” costituiscono, attualmente possono una “base regolamentare” condivisibile.
voi che ne pensate?

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Messaggio  0000723313 Sab Apr 02, 2016 4:41 pm

Rifacendomi ai contenuti del Libro Verde del 2001 e della successiva comunicazione (da parte della Commissione europea) del 2002, nonché alle numerose considerazioni degli egregi studiosi sulle quali abbiamo avuto modo di riflettere, rispondo alla tua domanda partendo da una breve considerazione circa la natura della CSR.
Sorvolando sulla innegabile difficoltà gravante sul tentativo di attribuire alla sigla “CSR” una qualsivoglia consistenza epistemologica, direi che, come prima approssimazione, è possibile affermare che quello della CSR è un fenomeno culturale di ampio respiro, la manifestazione di un nuovo approccio metodologico che nasce dal desiderio di intraprendere un percorso di responsabilizzazione dell’attività d’impresa, un percorso che si concretizza nel tentativo di innestare nelle politiche commerciali dell’impresa e nei suoi rapporti con le parti interessate (i c.d. stakeholders) preoccupazioni di natura sociale ed ecologica coincidenti, almeno in grossa parte, con gli obiettivi oggetto della strategia di Lisbona.
Preso atto di ciò, sorge abbastanza spontaneo domandarsi con quali propositi e in vista di quali utilità la CSR si accinge a diffondersi nelle più disparate realtà nazionali.
In seno ai propositi, direi che una prima idea è offerta, se pur in modo piuttosto vago, dalla stessa definizione di CSR data dal Libro Verde del 2001, anche se, a onor del vero, non mancano le opinioni di chi, probabilmente non senza una certa malizia (o esperienza), vede dietro la CSR una sottospecie di “macchinazione diabolica” atta a strumentalizzare l’adozione di determinate politiche al più o meno preciso scopo di ottenere, a conti fatti, maggiori profitti.
In senso alle utilità in vista, al contrario, direi che lo scenario che si presenta è probabilmente ancora più vasto e complesso di quello appena presentato.
Cavalcando l’onda della crisi di transazione del Diritto del lavoro, nonché muovendo i suoi passi su un terreno particolarmente fertile per la nascita e la diffusione di sistemi e metodi anche solo potenzialmente capaci di compensare le sempre più crescenti debolezze del Diritto in parola, la CSR potrebbe prestarsi a divenire, presto o tardi e non senza pericolose conseguenze, una “fonte normativa” alternativa a quella legale. La fertilità del terreno sul quale la CSR muove i suoi passi, oltreché dalla poc'anzi citata crisi di transazione del Diritto del lavoro, potrebbe essere sostenuta anche dalla ineluttabile difficoltà del Diritto del lavoro di penetrare in determinati ambiti della vita sociale ed economica del Paese, ambiti che, vuoi per un motivo o vuoi per un’altro, sono tanto più “impermeabili” alle norme quanto più è complessa e dinamica la realtà nella quale economia e società sono chiamate ad evolversi e intrecciarsi.
In altre parole, semplificando il discorso, la CSR, se sviluppata in un certo modo e a determinate condizioni, può indossare le vesti di un efficace strumento di “disciplina” e contenimento, uno strumento in parte volto a rendere più efficaci le norme di legge già esistenti (attraverso l’adozione spontanea, da parte delle imprese, di strumenti di autodisciplina basati su numerosi precetti normativi) e in parte volto ad incanalare, se pur con minore intensità rispetto alla legge, quelle realtà alle quali la legge stessa, volente o nolente, non può arrivare.
Per queste ragioni, in conclusione, ritengo che subordinare la CSR ad una disciplina (nazionale o internazionale che sia) improntata all’ottica dell’hard law, altro non farebbe che fare dei difetti della CSR i difetti della norma di legge.

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Messaggio  0000734697 Sab Apr 02, 2016 6:28 pm

Ci tengo però a fare una breve precisazione, scontata...ma non per tutti.
Come hai già detto, la RSI è concepita come Soft law, cioè nella promozione della stessa, la Comunità Internazionale ha adottato strumenti non obbligatori (quali raccomandazioni, linee guida...) non giuridicamente vincolanti. Per Soft law, infatti, in generale (e in tema di diritto naturalmente), si intende qualsiasi strumento meta-giuridico che non rientra in una precisa categoria tecnica-giuridica, ma che HA la struttura logica delle norme vincolanti...ergo un comportamento è dovuto solo se si verificano determinati presupposti. Ma si tratta comunque di un obbligo giuridico!!
Allora dove sta la differenza tra Soft law e Hard law? Ciò che differisce è la possibilità di creare diritti e obblighi in capo ai destinatari (capacità sola dell'hard law).
La RSI è è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese. Non può che non essere concepita come Soft law.

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Messaggio  0000723134 Dom Apr 03, 2016 8:12 am

Concordo nel definire che la CSR attualmente possa essere regolamentata solamente mediante meccanismi di soft law, per lo meno riferendosi ad un contesto internazionale caratterizzato da molteplici realtà socio-economiche differenti per le quali è difficile trovare un livello specifico di regolazione della CSR che si identifichi come divisore comune per tutti i paesi in questione.

Possono a mio parere tuttavia essere definiti alcuni ambiti maggiormente specifici all’interno della CSR che per lo sviluppo quasi uniforme avuto nell’ultimo periodo – parlando in merito all’ambito europeo – potrebbero essere riconosciuti da molti paesi come “obiettivi sociali” comuni.

Tra questi ambiti si può riporre la gestione del personale con particolare attenzione alle politiche concernenti la diversità di genere. Questa trova espressione generale all’art 3 del TCE (“l’azione della Comunità […] mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”) e successivamente all’interno del medesimo trattato al secondo paragrafo dell’art 141 TCE si entra nello specifico definendo le azioni positive prescritte dal diritto comunitario come misure “che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”. Viene posta cosi in evidenza l’importanza attribuita alla questione relativa alla differenza di genere anche all’interno dell’ambito lavorativo già a partire dai trattati istitutivi.

Dai trattati in poi le istituzioni europee hanno operato sempre più azioni in materia, in quanto si ritiene universalmente riconosciuta l’importanza del tema e del suo sviluppo sociale (possiamo citare ad esempio il “patto europeo per la parità di genere” del 2011, la comunicazione adottata dalla commissione nel 2007 per diminuire il divario retributivo tra uomini e donne, … e cosi via). Tuttavia sulla base dei dati Eurostat 2011 il divario retributivo medio europeo è del 16,4% e andando a guardare i singoli paesi si trovano cifre molto differenti: Estonia 30%, Austria 23,4%, Slovenia 2,5%, Malta 6,1%, Italia 6,7%.

Da questi dati secondo me emerge che pur essendo un tema ampiamente dibattuto, universalmente riconosciuto e regolamentato a livello di soft law è necessario in primo luogo che questi gap vengano ridotti il più possibile per poter poi operare un’azione più tendente all’hard law.

E un discorso analogo a mio avviso può essere fatto anche per molti altri ambiti della CSR, non solo per la diversità di genere.

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Messaggio  0000725088 Dom Apr 03, 2016 2:46 pm

E' già stato sottolineato il carattere volontario delle politiche socialmente responsabili di una azienda, tramite l'autoregolazione le imprese possono dunque implementare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, migliorare il proprio impatto ambientale e reclutare il personale in modo non discriminatorio.
La natura della CSR è volontaristica, essa può svolgere un utile funzione di completamento delle norme stesse, inducendo le imprese a comportamenti cooperativi che vadano oltre a quanto prescritto. Inoltre, essa può penetrare in alcune zone vuote della gestione dei rapporti, quindi la CSR può indurre ad andare oltre le regole, ma non può essere vero il contrario vista la sua natura volontaristica.
Per poterla implementare potrebbe essere impiegati maggiori incentivi, premi, verso quelle imprese socialmente responsabili che vanno al di là di quanto previsto dalla norma e che scelgono di investire parte dei guadagni negli stakeholder.
Vorrei infatti riportare uno strumento che ha adottato la regione Emilia-Romagna per la incentivazione della RSI, ovvero il "Premio ER-Rsi - Premio per la responsabilità sociale in Emilia-Romagna". L'intervento, approvato con delibera di Giunta regionale n. 1093 del 28 luglio 2015, si inquadra nell'attuazione della L.r. n. 14 del 18 luglio 2014, relativa alla promozione degli investimenti in Emilia-Romagna ed è coerente con gli indirizzi dell'Unione europea.
La Regione Emilia Romagna, con tale strumento, ha voluto promuovere la cultura della responsabilità sociale d'impresa e l'impresa sociale sostenendo progetti che coinvolgano le imprese di qualunque settore produttivo, ma anche le parti sociali e gli enti che operano per la promozione della responsabilità sociale.
Essendo la nostra economia basata massicciamente su piccole e medio imprese, queste tipologie di incentivi potrebbero essere efficaci affinché le imprese adottino politiche socialmente responsabili, verso i lavoratori e gli altri portatori di interessi, senza escludere il territorio, inteso sia sotto forma di controllo sull'impatto ambientale ma anche come un investimento nel territorio in cui l'impresa si inserisce.

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RSI:empasse tra diritto internazionale e sensibilità sociale. Empty Hard law o soft law?con chi convive meglio la RSI.

Messaggio  626865 Mer Apr 13, 2016 7:15 am

La salute della azienda e con essa quella dei suoi valori morali,è resa possibile dalla sua gestione eticamente corretta,e non si identifica invece con il profitto. Questo è importante,certo,per portare avanti la vita della società,ma non è il vero cuore della RSI.
LA RSI vede sviluppare la sua natura in quelle aziende che ritengano che sia corretto eticamente andare oltre il mero guadagno,e che non si limitano a rispettare le varie,eforse a volte troppo stringenti normative di legge,ma che va oltre. L'azienda che forma un'endiadi con la RSI è un'azienda che si muove,al di là delle regolamentazioni,e che si fa guidare dalla soft law,dall'etica,dai codici di autoregolamentazione e da un codice proprio che sia tale da rispettare le leggi,ma che aggiunga un contenuto positivo,ad esse.
È per questo che la pratica di fare RSI,o più probabilmente CSR,la troviamo nei contesti di Common law,dove c'è meno stringente legificazione,ma ci è una forte valenza dei principi morali,dell'attenzione verso gli altri,e verso la società.

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Messaggio  0000724755 Mer Apr 13, 2016 10:06 am

Ritengo che il carattere peculiare della responsabilità sociale d'impresa sia la volontarietà; quello che è possibile fare è però cercare ridurre l'incertezza data dall'utilizzo di questo strumento esclusivamente per fini opportunistici: è in questa direzione che va la direttiva 2014/95/UE, e non riesco ad essere molto critica su ciò, anche se comporta una coercizione della volontà delle imprese.
Vorrei però fare una riflessione a partire da una considerazione fatta nell'ultimo post, cioè che la RSI nasca dalla volontà delle imprese che la applicano di andare oltre il profitto.
Mi chiedo se questa sia un'affermazione giusta, ma non completa. Mi spiego meglio: la RSI è per definizione un voler andare oltre le garanzie per l'ambiente e i vari stakeholder date a livello normativo; questo vuole però necessariamente dire che sia necessario andare oltre al mero guadagno, come detto sopra, oppure che sia possibile venire incontro alle richieste ed esigenze dei portatori di interesse rimanendo pur sempre in un'ottica di massimizzazione del profitto?
Mi viene in mente una considerazione del genere perché per l'impresa for profit è raro, non so se geneticamente impossibile, riuscire a mettere al primo posto qualcosa di altro rispetto ai guadagni (a dispetto di quanto la comunicazione vorrebbe talvolta far credere, vedi il caso Benetton), mentre per converso le Società Benefit recentemente introdotte vanno in questa direzione, in quanto i menager possono prendere scelte aziendali che comportino una diminuzione degli utili se al fine di perseguire interessi di rilevanza sociale.
Non è forse possibile allora affermare che entrambi questi modelli sono praticabili, e seppur diversi tra loro si inseriscono in un quadro comune di interiorizzazione di preoccupazioni sociali?

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RSI:empasse tra diritto internazionale e sensibilità sociale. Empty Codici di condotta esterni

Messaggio  0000725296 Sab Apr 16, 2016 5:10 pm

Dato che non esisteva, e tuttora non esiste, un codice internazionale che possa obbligare le imprese multinazionali ad adottare un comportamento socialmente responsabile, nella seconda metà degli anni Settanta le Organizzazioni internazionali hanno elaborato degli strumenti di eteroregolazione, definiti "Codici di condotta esterni", che servivano a rimodellare il comportamento delle imprese multinazionali, le quali stavano iniziando a preoccupare la comunità internazionale per l'impatto negativo sull'ambiente e sulla società stessa.
Questi codici di condotta esterni sono stati elaborati dopo un dibattito tra Paesi in via di sviluppo, che volevano difendere le proprie risorse naturali, e Paesi industrializzati, che volevano favorire esclusivamente le imprese multinazionali. Si può dunque intuire che lo scopo di questi codici di condotta internazionali non risieda tanto nella tutela dei diritti umani, ma piuttosto nell'attenuazione dei contrasti tra Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzati.
Tra le iniziative internazionali principali sono da ricordare a) la Dichiarazione Tripartita dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e b) il Global Compact delle Nazioni Unite.
Per quanto riguarda il punto a), nel 1972 era stato nominato un comitato di esperti il cui compito era quello di elaborare una proposta, a carattere non vincolante, che risolvesse i problemi sociali causati dalle imprese multinazionali. La proposta, che venne elaborata in accordo tra governi, rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, fu inviata alle Nazioni Unite e successivamente approvata nel 1977 sotto forma di “Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali”. Nel 2000 essa venne rinnovata attraverso l'inserimento di principi e diritti fondamentali in materia di lavoro, quali la libertà di associazione e il diritto di contrattazione collettiva; l’eliminazione del lavoro forzato e della schiavitù; l’abolizione del lavoro minorile; l’uguaglianza e il divieto di discriminazione in materia di impiego. Lo scopo era quello di "incoraggiare le imprese multinazionali a contribuire positivamente al progresso economico e sociale, nonché a ridurre al minimo ed a risolvere le difficoltà che le loro diverse operazioni possono creare, tenuto conto delle risoluzioni delle Nazioni Unite che preconizzano l’instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale”. In termini di politica generale, la Dichiarazione raccomanda alle imprese di rispettare i regolamenti nazionali del Paese in cui si stabiliscono. La sezione “Occupazione” poi emana dei principi che concernono la sicurezza sul lavoro, l’uguaglianza di trattamento, lo sviluppo economico. Nella terza sezione, le imprese multinazionali sono invitate ad assicurare ai propri dipendenti un buon livello di formazione che mira ad accrescere la qualificazione professionale del lavoratore. Nel paragrafo “Condizioni di lavoro e di vita” si vogliono garantire salari e prestazioni economiche adeguati, per permettere ai dipendenti di soddisfare i propri bisogni e quelli delle loro famiglie. Dall'ultima sezione, dedicata alle Relazioni Industriali, invece sono garantiti i diritti di contrattazione collettiva e diritti sindacali che sanciscono la libertà dei lavoratori di poter aderire o meno alle organizzazioni senza preoccuparsi di atti discriminatori. Anche se la Dichiarazione Tripartita non ha efficacia vincolante, esiste una procedura con la quale si può verificare l’osservanza dei principi in essa contenuti: l'Ufficio Internazionale del Lavoro ogni 4 anni deve analizzare i rapporti scritti da Stati, governi e parti sociali per conoscere le buone pratiche e i problemi riscontrati nell'attuazione delle raccomandazioni della Dichiarazione. Nonostante ciò, non sono previste sanzioni verso le imprese che non rispettano le norme della Dichiarazione.
Passando al punto b) il Global Compact è un’organizzazione nata nel 1999 che, prevedendo una cooperazione tra le principali imprese multinazionali e le Nazioni Unite, mirava alla creazione di una cornice internazionale di principi che dovevano essere rispettati nello svolgimento delle attività economiche per assumere un comportamento socialmente responsabile. Il Global Compact richiede alle imprese di sostenere la libertà di associazione e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva; di eliminare tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio; di astenersi dall'utilizzo di lavoro minorile; ed evitare la discriminazione nei rapporti di lavoro. Nel settore ambientale, il Global Compact, richiede alle imprese di avviare iniziative che possano condurre ad una maggiore responsabilità ambientale e di incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l’ambiente. Ulteriore principio è quello riguardante la lotta alla corruzione attraverso il contrasto di estorsioni e tangenti. Anche il Global Compact non prevede sistemi di controllo e monitoraggio e quindi gode di poca credibilità.

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RSI:empasse tra diritto internazionale e sensibilità sociale. Empty RSI: empasse fra diritto internazionale e sensibilità sociale

Messaggio  725283 Ven Mag 13, 2016 10:21 am

A mio avviso, la dimensione internazionale dell'intervento delle politiche di RSI non dovrebbe essere sottovalutata, seppure è vero che in questo ampio contesto trovare una concordanza e un accordo comune sui valori etici e morali da riconoscere e tutelare è ancor più difficile che nel più limitato ambiente nazionale. Però è forse l'unica dimensione che permette di dare quella risonanza mediatica e sociale in grado di avvicinare la causa delle RSI alla sensibilità della massa dei consumatori, senza rinchiuderla e soffocarla nei meandri delle contrattazioni locali o di procedimenti legislativi farraginosi, come l'esperienza italiana ci insegna. Creare un dibattito a livello internazionale potrebbe costituire il primo passo verso una sensibilizzazione sempre più ampia su tali tematiche, al fine di stabilire linee guida e meccanismi di certificazione e controllo che possano oltrepassare i vincoli giuridici nazionali ed ottenere vincolatività extra-nazionale, la quale permetterà in seguito di alimentarne l'impatto sociale e mediatico.

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