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PRINCIPI DI RSI INTERNAZIONALMENTE UTILIZZATI ALL'INTERNO DELLE MULTINAZIONALI

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Messaggio  0000728046 Ven Apr 22, 2016 11:55 am

A partire dagli anni 70 l'attività delle imprese multinazionali su lavoro e politica sociale è stato oggetto dei lavori dell'Internazional Labour Organization (OIL). Infatti nel corso degli anni 70, più precisamente nel 1976 la Tripartite Advisory Meeting on Multinational Enterprises and Social Policy, chiese la fissazione di opportuni standards di condotta per le imprese multinazionali.
Nell'ambito della politica sociale nel 1977, il consiglio di amministrazione OIL adottò la Dichiarazione Tripartita di Principi sulle Imprese Multinazionali e la Politica Sociale.
Le disposizioni di essa richiamano ad una serie di principi internazionali importanti in materia di lavoro che le parti sociali sono tenute ad applicare, in particolare vediamo anche un altro importante testo adottato dall’OIL nel 1998, ovvero la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali dei lavoratori la quale enunciava appunto diversi principi fondamentali nelle relazioni di lavoro ovvero:
- libertà di associazione
- riconoscimenti del diritto alla contrattazione collettiva
- eliminazione di qualsiasi forma di lavoro forzato o obbligatorio
- abolizione effettiva del lavoro minorile
- eliminazione di ogni forma di discriminazione nel lavoro.
Tali principi recepiti poi nella dichiarazione tripartita sono destinati a guidare le imprese multinazionali, i governi e gli imprenditori.
Questo tipo di strumento intende incoraggiare le imprese multinazionali a contribuire positivamente al progresso sia economino che sociale e a ridurre al minimo le difficoltà che le loro operazioni possono creare. La dichiarazione tripartita, prevede un'articolata procedura di Fallow – up, volta a verificare la conformità delle multinazionali con gli standards sanciti. Essa invita ,in oltre, l'impresa ad integrarsi con il tessuto economico e sociale dello Stato in cui opera, sancendo anche la necessità di rispettare alcuni principi, come la non discriminazione.
L'impresa viene dunque incoraggiata ad avere un ruolo essenziale di modello nelle garanzie che dovrebbero essere offerte ai lavoratori con il fine ultimo di contribuire alla crescita occupazionale attraverso anche l'armonizzazione dei propri processi produttivi e di gestione con le risorse umane.
Possiamo concludere dicendo che pare che la generale applicazione dei principi stabiliti dalla dichiarazione tripartita possa essere raggiunta con procedure da monitoraggio a livello nazionale e internazionale e attraverso la promozione di tali principi da parte delle associazioni che rappresentano i lavoratori e i datori di lavoro.

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Messaggio  0000731829 Sab Apr 30, 2016 2:31 pm

Di sicuro questi principi sono importanti come dice Lei collega, ma non sempre vengono rispettati, anzi. Purtroppo ci sono innumerevoli casi di sfruttamento in campo lavorativo da parte di multinazionali, su persone che si trovano in condizioni disagiate: lo schiavismo è purtroppo una realtà ancora presente, nei nostri paesi industrializzati e non solo, con il solo scopo di ottenere il massimo guadagno e rendimento produttivo, a costo zero. Un caso eclatante è quello di Rosarno, in Calabria dove la produzione delle bibite del noto marchio Coca Cola (in particolare la raccolta delle arance) avveniva in condizioni disumane per mano di migranti provenienti dall'Africa. Questo caso è stato messo in evidenza da un’inchiesta effettuata da parte di The Ecologist, ripreso poi da The Indipendent. Tutto ciò ha avuto inizio nel 2009 con una rivolta da parte di tali migranti che hanno distrutto centinaia di auto e ribaltato altrettanti cassonetti. Riporto uno spezzone di articolo del Corriere della Sera al riguardo (datato 2012): “Tutto è partito un paio di giorni fa da un'inchiesta della rivista britannica The Ecologist ripresa dal Corriere riguardante il coinvolgimento della Coca Cola nello sfruttamento della manodopera africana in Calabria. Secondo The Ecologist la multinazionale americana acquisterebbe a costi ridottissimi succo d'arancia concentrato dalle aziende calabresi. E questo sarebbe il motivo per cui gli agrumicoltori sarebbero costretti a sottopagare gli immigrati (25 euro per una giornata lavorativa di 14/15 ore). In fondo, poi, la condizione degli africani a Rosarno è cosa nota. E la loro rivolta del gennaio 2009 è ancora viva nei ricordi di molti. Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti Calabria, interpellato da The Ecologist aveva confermato il fatto, raccontando che «il prezzo che pagano le multinazionali non è giusto» e che «così costringono le piccole aziende dell'area a sottopagare gli operai». «Basterebbe che le multinazionali pagassero il giusto prezzo di 15 centesimi - aveva aggiunto Molinari - e la situazione cambierebbe radicalmente»”. La Coca Cola reagì smentendo ogni accusa e disdicendo ogni ordine per le aziende calabresi, gettando la Piana di Rosarno in una profonda crisi. Una nota positiva ci fu a marzo 2012, quando i vertici del noto marchio rassicurarono l’Italia, dicendo che avrebbero incrementato gli acquisti di succo d’arancia, sia in Sicilia che in Calabria. Nonostante tutto non credo si possa parlare di lieto fine, molti dei principi da Lei evidenziati non sono stati rispettati, quali l’eliminazione di ogni forma di discriminazione, lavoro minorile e condizioni disumane in generale, quando in realtà dovrebbero essere le grandi multinazionali in primis a rispettarli.

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Messaggio  0000644763 Lun Mag 02, 2016 10:53 am

A tal proposito vorrei chiarire qual è il ruolo delle multinazionali nella diffusione della responsabilità d’impresa. Come è noto, le imprese multinazionali non possono esimersi dall’intraprendere politiche di CSR. Esse, infatti, operando dislocate in diversi Paesi, hanno ampie possibilità di incidere profondamente nello sviluppo dei mercati e delle società mondiali, sia per le grandi dimensioni, sia per l’elevata forza economica. Una gestione accorta del proprio comportamento responsabile risulta, inoltre, fondamentale per la multinazionale che voglia creare un valore sostenibile nel tempo.
É importante che le politiche di CSR non debbano esaurirsi in mere opere di filantropia aziendale, che hanno effetti limitati, ma devono essere integrate nelle strategie aziendali di ampio raggio, sviluppate in ottiche di lungo periodo, perché solo in questo modo tali politiche possono produrre i loro effetti positivi, quali la tutela del marchio, la fidelizzazione del cliente, il miglioramento del clima aziendale, eccetera.
Oggi è sempre più importante per un’impresa, specialmente multinazionale, saper gestire l’attuale continuità e saper prevedere e governare le discontinuità che si accentueranno man mano che il contesto della globalizzazione si farà più complesso. In tale ambito la strategia di CSR, legata strettamente al concetto di fiducia, non solo porta l’impresa a rinnovarsi ai cambiamenti esterni, ma la induce a farlo con successo, “cavalcando l’onda” insomma. Inoltre tali strategie fanno sì che tale successo, in termini di aumento di profitto, sia anche e soprattutto sostenibile.
Così facendo esse contribuiranno in modo più marcato di quanto non possa fare una piccola o media impresa allo sviluppo del benessere nella comunità, migliorando le relazioni di scambio con tutte le categorie di stakeholder; di conseguenza aumenterà anche il valore reale della stessa impresa sul mercato.
Inoltre, una multinazionale che adotti lungimiranti politiche di CSR costituirà un esempio da seguire per la realtà economica del paese ospite, contribuendo a diffondere il concetto di sviluppo socialmente responsabile, modelli di riferimento e best practice. Questo comportamento virtuoso porterà ad un miglioramento degli scambi, della sinergia con le altre aziende del territorio e dello sviluppo economico del paese in generale.
Le politiche di CSR non sono quindi, antitetiche con la possibilità di realizzare profitti, al contrario, se attuate con criterio esse gettano le basi per una crescita esponenziale dell’impresa inquadrata nell’ottica della sostenibilità.

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Messaggio  0000723896 Sab Mag 07, 2016 9:51 am

Vorrei fare notare che gli studiosi più pessimisti hanno seri dubbi sulla tendenza che si sta configurando sul piano internazionale : come sottolinea Armando Tursi, mentre la Comunità Europea tenta di dettare alle imprese degli Stati membri l’agenda della CSR, attuando un coordinamento aperto ad hoc, sul piano internazionale, si sta creando una sorta di superiore livello di governance, le cui fonti di produzione sono rappresentate da un intreccio meta-statuale e meta politico tra grandi imprese multinazionali (soprattutto statunitensi) e istituti internazionali quali l’ONU e l’OCSE. Ferguson usa parole più pesanti in “The Anti-Politics Machine: Development,Depoliticisation, and Bureaucratic Power in Lesotho”, ritenendo che queste istituzioni “si arrogano il diritto morale e legale di regolare i rapporti tra il mercato e la politica al livello internazionale”. Adottando gli standard internazionali, gli Stati cedono il diritto di disciplinare la condotta delle loro imprese fuori dai propri confini alle imprese medesime e a soggetti di incerta legittimazione democratica, realizzando così una sorta di “depoliticizzazione” della regolazione sociale.
In realtà il ragionamento portato avanti da questi studiosi e il crescente conflitto tra mercato e società, solleva alcuni interrogativi: siamo sicuri che per favorire lo sviluppo di comportamenti etici nella gestione delle imprese, il processo debba necessariamente transitare per le imprese multinazionali?
La disponibilità economica di quest’ultime certamente rende più agevole, agli occhi della società civile, la realizzazione di comportamenti etici; tuttavia non è forse vero che la CSR rischia di diventare uno strumento di marketing in mano alle stesse imprese multinazionali, sebbene molte volte non sia accompagnato ad un reale comportamento virtuoso a 360 gradi? Mi riferisco ad esempio a molte imprese e marchi importanti nel campo della moda, che da un lato promuovono comportamenti etici in linea con l’idea di RSI e dall’altro si rendono colpevoli di comportamenti deprecabili come delocalizzazione e sfruttamento di persone e/o animali all’oscuro della maggioranza della società civile.
Di fronte a questo, mi chiedo e chiedo a voi colleghi, non è auspicabile e preferibile che la realizzazione del modello di impresa responsabile parta non dalle multinazionali ma da piccole e medie imprese? E in che misura lo Stato può favorire questo cambiamento?

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Messaggio  0000728046 Dom Mag 08, 2016 3:54 pm

Riallacciandomi al caso coca-cola trattato sopra dalla nostra collega, concordo purtroppo che tutti i principi da me sopra riportati dovrebbero essere rispettati, ma che nella realtà dei fatti non è così. Proprio in tema di discriminazione vorrei aprire una parentesi riguardo alle discriminazioni di genere tutt'ora presenti nella nostra società tanto "industrializzata e globalizzata" che però ancora retribuisce diversamnte le persone a seconda di diversi aspetti, come il colore della pelle o appunto il genere. E' vero che effettivamente le cose con il passare degli anni sono migliorate anche nell'ambiente lavorativo, ma purtroppo ancora in tante multinazionali vi sono forti discriminazioni.
Vorrei appunto citare quando ,circa tre anni fa, la OXFAM (Oxford Commitee for Famine Relief) ha lanciato l'iniziativa “scopri il marchio” per invitare le grandi aziende del cioccolato ovvero: Mars, Mondlez e Nestlè a cambiare il modo di fare affari in quanto si voleva contrastare la povertà e le disuguaglianze delle donne che lavoravano nella produzione del cacao.
Così facendo la Oxfam lanciò un appello firmato da oltre 60000 persone per combatter la povertà e l'ineguaglianza all'interno di queste grandi aziende. Le donne impiegate nelle filiere delle multinazionali sopra citate sono pagate meno degli uomini e subiscono discriminazioni pesanti.
E' ora che i vertici si impegnino maggiormente per effettuare cambiamenti migliorativi di tali condizioni, o saranno i consumatori ,sempre più consapevoli, a premiare le aziende più responsabili. Vediamo che dopo tali avvenimenti Mars e Nestlè hanno deciso di impegnarsi di più su un piano d'azione migliorativo rispetto al passato e di lavorare con le organizzazioni del settore per affrontare “la questione di genere”. Per troppo tempo le donne sono state l'ultimo anello della catena del settore alimentare e purtroppo la discriminazione di genere è tra le principali cause di fame globale povertà e ineguaglianza, pare ora che finalmente Mars e Nestlè abbiano dimostrato di voler ascoltare l'Oxfam.
Ma a mio avviso finché si parlerà o ancora si faranno “questioni di genere” non ci potrà essere uguaglianza.

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Messaggio  0000724464 Ven Mag 13, 2016 9:32 am

Per riallacciarmi all'interessante questione sollevata dal/dalla collega che domanda se sia preferibile che la realizzazione del modello di impresa parta dalle piccole e medie imprese piuttosto che dalla multinazionali, rispondo che, personalmente, ritengo di no.
E' indubbio che, purtroppo, molto spesso le grandi multinazionali (basti pensare al caso Coca Cola riportato dalla collega) si impegnano in comportamenti virtuosi come mera strategia di marketing, andando poi a trascurare aspetti di fondamentale importanza, che di solito riguardano il triste ambito dello sfruttamento del lavoro e la conseguente, gravissima, violazione dei diritti umani.
Nonostante ciò, ritengo che lo strumento principe che potrebbe davvero fare la differenza nello sviluppo e nella diffusione di comportamenti etici, sia proprio in mano alle multinazionali, non solo in virtù del loro indiscutibile potere economico, ma anche (e soprattutto) perché operano in diversi paesi, di diverse culture, con condizioni di sviluppo economico e tutela interna dei diritti dei lavoratori profondamente diversi rispetto a quelli vigenti nella stragrande maggioranza dei paesi cosiddetti "industrializzati".
A questo proposito, mi vengono in mente le Norme delle Nazioni Unite sulla Responsabilità delle Imprese Multinazionali ed Altre Imprese riguardo ai Diritti Umani. In questo testo, elaborato dalla Sottocommissione per la Promozione e Protezione dei Diritti Umani ed emanato in data 13 agosto 2003, si impongono in capo alle IMN non sono obblighi negativi di non violazione diretta o indiretta dei Diritti Umani, ma anche degli obblighi positivi di promozione di comportamenti etici, in tutte le realtà in cui la multinazionale si trova ad operare o con cui entra in contatto. Il controllo del rispetto delle Norme, è in prima istanza a carico dell'impresa medesima che effettua un controllo interno, ma è espressamente previsto che unioni sindacali, ONG, associazioni imprenditoriali e dei consumatori compiano operazioni di monitoraggio nell'attuazione delle Norme, utilizzandole come parametro di riferimento per altre iniziative "etiche" in materia di investimenti. Agli Stati, viene richiesto di stabilire e rafforzare il quadro legale ed amministrativo per assicurare che le imprese multinazionali e le altre società commerciali rispettino i principi in materia dei diritti dell'uomo. Le Norme prevedono, inoltre, un risarcimento che le imprese dovrebbero offrire a persone fisiche, giuridiche, o a comunità che abbiano subito un pregiudizio dalla mancata attuazione delle Norme stesse.
Tali Norme non hanno ancora assunto valore di diritto consuetudinario nel contesto internazionale, ma costituiscono una codificazione dei principi riaffermati a partire dagli anni '70 in materia di RSI.
Il rispetto di tali norme da parte della stragrande maggioranza delle multinazionali (forse si tratta ancora di un'utopia), porterebbe, a mio parere, a risultati sensibilmente migliori rispetto a quelli che potrebbero ottenere piccole e medie imprese, molto più limitate sia dal punto di vista del potere economico che dalle dimensioni del mercato in cui operano. Ciò non toglie che, in virtù delle loro dimensioni contenute e della maggior vicinanza al contesto socio-culturale di cui fanno parte, le piccole e medie imprese potrebbero svolgere un grande ruolo nel sensibilizzare e far conoscere le tematiche riguardanti la CSR ai consumatori.

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Messaggio  0000724464 Ven Mag 13, 2016 9:48 am

Rileggendo l'intervento sopra della collega, nel punto in cui si afferma che "è ora che i vertici si impegnino maggiormente per effettuare cambiamenti migliorativi di tali condizioni, o saranno i consumatori ,sempre più consapevoli, a premiare le aziende più responsabili", mi sorge un quesito provocatorio: siamo sicuri che i consumatori siano così consapevoli? Quanti di noi, anche dopo aver conosciuto, analizzato, riportato esempi di multinazionali che adottano alcuni comportamenti responsabili come ennesima strategia di marketing, si faranno domande, ad esempio davanti ad una maglietta da 7€, o l'acquisteranno ugualmente perché spesso è più comodo non pensare?
Molti consumatori continueranno sempre a mettere in atto comportamenti "egoistici", ma a mio avviso si presentano anche un'infinità di problematiche pratiche: reperire informazioni sul singolo prodotto o sull'azienda in generale, comporta l'impiego della risorsa tempo, che nelle moderne società può rappresentare un bene prezioso tanto quanto il denaro. Senza considerare la crisi economica di questi ultimi anni che senza dubbio ha ridotto il potere di acquisto di molti consumatori e si sa, i prodotti "etici" hanno un costo. Mi piacerebbe leggere le vostre opinioni in proposito.

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Messaggio  0000731829 Ven Mag 13, 2016 4:42 pm

Rispondo ad uno degli ultimi commenti, riguardo il “quesito provocatorio: siamo sicuri che i consumatori siano così consapevoli? Quanti di noi, anche dopo aver conosciuto, analizzato, riportato esempi di multinazionali che adottano alcuni comportamenti responsabili come ennesima strategia di marketing, si faranno domande, ad esempio davanti ad una maglietta da 7€, o l'acquisteranno ugualmente perché spesso è più comodo non pensare?” ebbene, sono pienamente d’accordo con la/il collega. Oggi come oggi, non ci si pone il problema del perché un vestito costi solo 7 euro, o in periodo di saldi 3. Nessuno pensa alla completa assenza di RSI in queste super imprese di vestiario, che propongono abita ad un prezzo stracciato. In quanti di noi aspettano i saldi, gli sconti per fare i propri acquisti? Lo stesso vale per l’ambito alimentare: perché, ad esempio, le banane che vengo dall’africa costano meno di quelle italiano, o comunque europee? Siamo sempre davanti allo stesso discorso. Spesso questi colossi del marketing sviluppano da un lato una forte responsabilità sociale (per esempio H&M che ricicla gli abiti per salvaguardare l’ambiente) ma dall’altro la ignorano completamente (sempre H&M fa vivere i propri lavoratori in condizioni disumane). Certo è che l’attuazione delle Norme delle Nazioni Unite sulla Responsabilità delle Imprese Multinazionali ed Altre Imprese riguardo ai Diritti Umani, che la/il collega riportava sarebbe un buon punto di partenza, ma probabilmente servirebbero delle politiche molto più stringenti per le imprese, connesse ad un senso di responsabilità maggiore da parte di tutti.

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Messaggio  0000723896 Sab Mag 14, 2016 12:50 pm

Quando ponevo il quesito se sia preferibile che la realizzazione del modello di impresa parta dalle piccole e medie imprese piuttosto che dalla multinazionali, mi riferivo proprio a quanto sollevato dagli ultimi commenti. Possiamo veramente pensare che il cambiamento verso una società diversa dove si sviluppano imprese socialmente responsabili, debba dipendere dalla volontà di mettere in atto comportamenti virtuosi di poche (ma potentissime) aziende multinazionali? Il quesito provocatorio posto sopra (siamo sicuri che i consumatori siano così consapevoli?) ben sintetizza i problemi che, in quanto cittadini e consumatori, ci troviamo ad affrontare tutti i giorni: una scarsa responsabilità sociale e civica che si riflette chiaramente anche sull'economia e sul modo di concepire l'impresa. Il primo passo verso un cambiamento quindi deve certamente essere incentivato dallo Stato e da politiche attive di sostegno alle imprese, ma successivo a questo presupposto, che deve costituire la base per affrontare un discorso di RSI, vi deve essere una consapevolezza della società civile, disposta a influenzare veramente il mercato economico. Quindi di fronte ad una maglietta da 7 euro, il cittadino consumatore deve informarsi e decidere consapevolmente; la scelta di ogni singolo individuo rappresenta il mezzo più forte: non possiamo pensare che il cambiamento provenga dall'alto e da aziende multinazionali (che non a caso sono le stesse che riescono a mettere sul mercato una maglietta a sette euro), ma è necessario che il consumatore si responsabilizzi prima di tutto verso se stesso e prenda coscienza della sua forza in un economia globale, dove il gesto di uno, se seguito da molti, può influenzare un azienda e, perché no, cambiarne la potenza sul mercato. Gesti collettivi di boicottaggio rappresentano il vero strumento in mano ai consumatori, che, in questo modo, possono avere un peso sull'economia, sul futuro e sulle scelte messe in atto da un azienda multinazionale. A questo punto la domanda diventa: come rendere consapevoli i cittadini e promuovere un nuovo sguardo critico sul consumo?

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