Responsabilità sociale e non profit

Le imprese odierne sono chiamate a pensare non solo al profitto ma anche al loro impatto sulla società, in altri termini del benessere di lungo periodo del territorio sul quale lavorano: sia come tutela dell'ambiente, sotto il profilo delle risorse umane e sotto quello, più importante, di iniziative di welfare e servizi per i cittadini (tra le quali spiccano scuole, volontariato, sport, cultura ecc.). Proprio questo aspetto, cioè la collaborazione delle imprese con le migliori realtà no profit, interessa il Terzo settore. Infatti la responsabilità sociale rappresenta oggi un ponte tra profit e no profit. Per incentivare questo ravvicinamento, "Unioncamere" ha condotto diverse indagini in Italia sui comportamenti delle imprese nei confronti del loro impatto sociale. Ne è scaturito che tante imprese ne hanno una scarsa conoscenza e temono si tratti "di un lusso che non possono permettersi". Sempre Unioncamere Piemonte ha spostato l'accento sui tangibili vantaggi delle imprese che consentono loro di essere competitive sul mercato; infatti l'azienda responsabile godrebbe di un clima aziendale migliore, beneficerebbe di una forte motivazione dei lavoratori, migliorerebbe la fidelizzazione dei clienti e quindi la propria reputazione. Mentre le Camere di Commercio lavorano in modo eccellente nel sensibilizzare le imprese, occorre chiedersi come i cittadini possano prendere parte attivamente in questo processo virtuoso. Sicuramente saranno spinti a legarsi verso imprese che rispettano i valori sociali sopra indicati ma questa non è una certezza ovvia. I cittadini, fulcro essenziale di tali progetti, dovrebbero informarsi sui prodotti che acquistano e comportarsi in modo tale da diventare utili strumenti per stimolare le imprese a percorrere la via della responsabilità sociale. Focalizzare il nostro interesse sulle imprese profit e no profit che agiscono coerentemente agli standard sociali in questione ci aiuterebbe a migliorare il nostro mercato e a combattere fenomeni quali ad esempio lo sfruttamento dei minori nelle aziende?

Mi pare opportuno focalizzare lo studio condotto da "Unioncamere. I risultati della ricerca fanno trasparire un atteggiamento di disistima degli italiani nei confronti delle principali istituzioni economiche. Sollecitati ad esprimere il grado di fiducia verso alcuni soggetti economici (multinazionali, piccole e medie imprese, negozi al dettaglio, banche, centri commerciali e supermercati), gli intervistati che azzardano un giudizio di massima fiducia,nel complesso, sono minoritari. A ogni modo, questo scetticismo ha diverse gradazioni; varia in funzione del soggetto economico verso cui è stato chiesto, di volta in volta, di esprimere un giudizio. La mancanza di fiducia più acuta la si osserva verso le banche e le multinazionali: verso le prime, il 73,5% degli italiani nutre poca o nessuna fiducia; nei confronti delle seconde, tale orientamento di sostanziale sfiducia coinvolge il 64% degli intervistati. Una maggiore credibilità, invece, è riconosciuta alle piccole/medie imprese, ai centri commerciali e ai negozianti al dettaglio (rispettivamente 54,2%, 47,4% e 44%). In altri termini, gli italiani si percepiscono meno distanti dalle istituzioni economiche che permeano la loro quotidianità in confronto alle entità impersonali e sopranazionali rappresentate dalle multinazionali e dalle banche, che il senso comune spesso assimila a strutture di potere. Una riprova di quanto sia diffusa tra gli italiani la convinzione che i soggetti economici non debbano essere dispensati dalle responsabilità verso la comunità e il contesto in cui operano, è fornita dal quesito con il quale si chiede se l’impresa debba farsi carico dei problemi della società. Poco meno di due italiani su tre ritiene che il compito dell’impresa non è limitato alla sola efficienza economica, ma contempla anche l’obbligo di contribuire alla soluzione dei principali problemi della società. Volendo riassumere, l’analisi sin qui condotta da Unioncamere spinge a svolgere almeno tre considerazioni: gli italiani sono alquanto diffidenti nei confronti dei canali tradizionali di comunicazione aziendale; contrariamente alle attese, è piuttosto ampia la conoscenza di strumenti innovativi di rendicontazione sociale delle attività delle imprese; infine, è forte la domanda di informazione su aspetti cruciali dell’operato delle aziende: prima di tutto la sicurezza dei lavoratori, ma anche le forme d’abuso di potere. L’opinione pubblica si dimostra comunque disponibile ad acquistare un bene a un costo maggiorato, purché provenga da un’impresa che mette in pratica delle iniziative a favore della collettività, dei lavoratori e dell’ambiente.

Cari colleghi, mi inserisco nella vostra discussione per far luce sulla dicotomia profit- no profit e citare un'iniziativa che mi ha particolarmente colpito. Oggi, a mio parere, il profitto non è tutto, non è il fine a cui tende un'impresa, ma il reale fine delle aziende è il soddisfacimento dei bisogni degli individui, del territorio e dell'intera comunità. Con la figura giuridica dell'impresa sociale possiamo distinguere il concetto di imprenditoria dal concetto di finalità lucrativa in virtù del fatto che le imprese sociali hanno una finalità che, andando al di là del profitto, rappresenta un grande valore aggiunto rispetto all'impresa tradizionale. Interessante è il progetto di Legambiente "Verso l'impresa sociale", finanziato ai sensi della legge n°383/2000 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con lo scopo di far conoscere il mondo no-profit non solo come attore sociale, ma anche quale attore economico capace di creare occupazione e ricchezza perseguendo non il profitto, ma buone pratiche etiche e solidali e quindi un nuovo modello di struttura quale l'impresa sociale.

Rispondo alla domanda posta in fondo al commento iniziale.
I cittadini devono informarsi sui prodotti che acquistano!
Ricordiamoci che l’offerta sul mercato non esiste se non vi è ancor prima la domanda. Il consumatore non è soggetto passivo delle politiche del mercato, ma attivo interlocutore delle imprese.
È dimenticandosi di questo che i cittadini lasciano carta bianca ad attività non solo discutibili sul piano sociale, ma addirittura illecite e a volte “disumane” (si pensi allo sfruttamento minorile). E si badi bene: questo comportamento si traduce in una totale collaborazione, alla luce del ruolo (sempre) attivo del cittadino - consumatore.
Quando il cliente entra nel negozio, dovrebbe porre la stessa attenzione che dedica al prezzo, alla “presentazione” del prodotto, anche alla storia di quest’ultimo. Dovrebbe sapere come è stato costruito, da chi, con cosa. E alla luce di questa analisi essere disposto a pagare anche un prezzo maggiorato per quel bene che proviene da un’impresa nella quale si attuano politiche di responsabilità sociale.
Anche perché se non lo facciamo noi, se non sborsiamo noi quella piccola differenza, essa si ripropone a lungo andare (quadruplicata) sull’ambiente e quindi sulla nostra salute.