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La certificazione SA8000 e il primato dell'Italia

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Messaggio  0000723023 Lun Apr 04, 2016 1:56 pm

Tenendo in considerazione un tipo di responsabilità etica, posto in essere dall’impresa, nel 1997 il SAI (Social Accountability International) ha emanato la c.d. “SA8000”, la prima norma internazionale di certificazione dell’impegno etico e sociale dell’impresa. Per capire un po’ meglio di cosa essa tratti, ci viene in aiuto il sito sa8000.info, nel quale si afferma che: “La norma SA (Social Accountability) 8000 […], contiene nove requisiti sociali orientati all'incremento della capacità competitiva di quelle organizzazioni che volontariamente forniscono garanzia di eticità della propria filiera produttiva e del proprio ciclo produttivo.
Tale garanzia si esplica nella valutazione di conformità del sistema di responsabilità sociale attuato da un'organizzazione ai requisiti della norma SA8000 visibile attraverso la certificazione rilasciata da una terza parte indipendente con un meccanismo analogo a quello utilizzato per i sistemi di gestione per la qualità […]”.
In altri termini, ci troviamo di fronte ad uno standard internazionale di certificazione, applicabile a qualsiasi settore merceologico, a livello internazionale, rilasciato da una parte terza ed indipendente, secondo indagini portate avanti con delle modalità molto particolari, principalmente per il tramite di interviste casuali, sia nei confronti di dipendenti ben determinati (il tutto, ad es., al fine di poter portare alla luce casi di “mobbing” impossibili da dimostrare tenendo conto del tipo di verifica manageriale interna), sia nei confronti dei sub-fornitori (al fine, magari, di poter debellare eventuali fenomeni di lavoro minorile o sfruttamento di lavoratori immigrati).

I temi su cui punta la SA8000 sono riassumibili in alcuni punti:
  - rispetto dei diritti umani e di quelli dei lavoratori;
  - tutela contro lo sfruttamento dei minori;
  - garanzie di sicurezza, nonché di salubrità del posto di lavoro.
Sono, queste, tematiche alquanto problematiche, che si tenta di risolvere, da un lato, tramite politiche di sensibilizzazione al rispetto, in generale, dell’uomo e dell’ambiente e, dall’altro, tramite l’applicazione ferrea di alcuni documenti internazionali, quali la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni discriminazione contro le donne ed, infine, le Convenzioni ILO (ovvero, le Convenzioni poste in essere dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro).

Continuando nella ricerca sulla SA8000, mi sono imbattuto in un dato molto particolare, che vorrei porre, in questa sede, alla vostra attenzione. Al 31 marzo 2015, sono 3.490 le imprese certificate SA8000 nel mondo; di queste, praticamente un terzo (più precisamente, 1.081) sono imprese Italiane. In pratica, l’Italia è al primo posto tra tutti i Paesi che ricorrono alla RSI. Un risultato simile, ovviamente, è stato possibile grazie ad opere di incentivazione ed incoraggiamento posti in essere sia dal Governo italiano, sia dalle singole regioni italiane (prima tra tutte la Toscana, grazie all’avvio del progetto “Fabrica Ethica”).

Ora, secondo il mio punto di vista, ciò non può che dar lustro alle imprese italiane, a livello internazionale, quasi incentivando anche indirettamente l’afflusso di capitali esteri nel nostro Paese. Eppure, i problemi persistono, e sono anche abbastanza evidenti. Basti pensare ai frequenti casi di “morti bianche”; ai casi di immigrati sfruttati nei campi agricoli, a prezzi bassissimi, principalmente in Sicilia -ma non solo- (“Sfruttamento dei lavoratori, Sicilia prima nel caporalato e lavoro nero”, palermo.blogsicilia.it); oppure, infine, ai casi di emissioni di gas tossici oltre i livelli consentiti (caso Ilva, per citarne uno).
A questo punto, quel che è lecito chiedersi è: cos’è che non funziona in maniera così ottimale, tanto da avere questa “Italia dalla duplice faccia”? Che le politiche di RSI poste in essere non siano poi così tanto attrattive come sembrano, magari in quanto gli imprenditori possano (erroneamente) pensare ed aver paura che ad una maggiore applicazione di RSI corrisponda un ritorno economico minore?
E’ il buon senso il miglior incentivo?
Per concludere, cito R. del Punta, il quale, in “Lavoro e responsabilità sociale dell’impresa”, ha acutamente affermato che “[…] All’impresa socialmente responsabile non si chiede di diventare altruista, bensì di coltivare un “egoismo intelligente”, dietro la promessa che se si aprirà ai più ampi orizzonti evocati dalla CSR potrà svolgere ancor meglio la sua missione naturale di creatrice di ricchezza”.

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Messaggio  0000724755 Lun Apr 04, 2016 6:53 pm

Volevo fare alcune osservazioni in merito alle problematiche sollevate.
Episodi quali le morti bianche, lo sfruttamento di lavoratori stranieri nei campi, le emissioni di gas tossici oltre la soglia consentita sono situazioni, purtroppo sempre troppo diffuse, che non vanno però a toccare la responsabilità sociale d’impresa in quanto tale: la RSI ha la caratteristica di porsi come un volontario andare oltre a ciò che è stabilito a livello legislativo o di contrattazione collettiva, invece quelle citate sono vere e proprie violazioni della normativa di carattere obbligatorio.
Condivido comunque le perplessità derivanti dalla creazione di un doppio standard, di un’Italia a due velocità, al crocevia tra ottime esperienze ed evoluzioni di CSR, e imprese (o addirittura ampie aree) che faticano anche a garantire il rispetto degli obblighi legali e contrattuali.
Sarebbe forse necessario fare un discorso più ampio, perché non è possibile individuare ciò che non funziona in questo sistema limitatamente alle politiche di RSI, ma è necessario gettare uno sguardo più ampio alle tante problematiche sul tema del lavoro che l’Italia si porta avanti dal secolo scorso: penso al problema mafioso e alla debolezza cronica mai superata nelle zone più depresse del Paese.
Certamente, è possibile che contribuisca a questa situazione anche una mancanza di informazione, una percezione di bassa attrattiva della responsabilità sociale d’impresa, che per questo non riesce ad attecchire in maniera soddisfacente; ma se a ciò sarebbe possibile ovviare, ad esempio aprendo un dialogo istituzionale, presentando la RSI come strumento utile anche ad aumentare il proprio profitto, non è possibile fare lo stesso con il superamento delle pre-condizioni che portano all’impossibilità di assicurare anche un mero rispetto di norme legali.

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Messaggio  0000723023 Lun Apr 04, 2016 7:28 pm

Condivido pienamente quanto appena detto, precisando che reputo che una di quelle citate come "pre-condizioni" (ovvero la mafia e le infiltrazioni mafiose nelle imprese) come una vera e propria piaga sociale che trova, quasi, una sua dimensione e una sua grande applicazione proprio in situazioni come, ad es., lo sfruttamento dei lavoratori immigrati (magari anche clandestinamente).
Certo, la mancanza di informazioni potrebbe dare alito alla "ignoranza" in materia, al punto da rendere meno attrattive le politiche di CSR.
L'ignoranza, solitamente, viene ad essere combattuta con la conoscenza, ed il governo e le singole regioni, a quanto pare, come detto prima, hanno promosso (o tentato di promuovere) delle iniziative per ottenere una maggiore adesione (volontaria) a politiche simili. Attenendomi ai dati statistici di cui sopra, esse sembrano essere riuscite nel loro intento, ma solamente per una buona parte: è qui che torna il discorso dell'Italia a due velocità.
In sostanza, è quasi ingiusto che l'ignoranza di (ancora) pochi possa andare a discapito del benessere, anche solo potenziale, di molti. Che il governo debba, dunque, promuovere iniziative diverse dalla semplice offerta di incentivi, puntando ad estirpare problemi maggiori ed usando (in quei casi specifici) la forza? Ripeto, è il buon senso (dei molti o, meglio, delle imprese italiane già certificate SA8000) il miglior incentivo all'adesione da parte di altre imprese più "titubanti"?


Ultima modifica di 0000723023 il Lun Apr 11, 2016 12:37 pm - modificato 1 volta.

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Messaggio  0000723944 Lun Apr 04, 2016 9:00 pm

Concordo su quanto é stato detto circa il fatto che i due piani vadano tenuti distinti, così come diversi sono i due tipi di sanzioni. Attenendosi all'idea originale di responsabilità sociale d'impresa, uno degli aspetti che la qualifica come tale é proprio il carattere sociale delle sanzioni che andrebbero comminate per le violazioni degli impegni presi. I casi di morti bianche, sfruttamento di particolari categorie di lavoratori e inquinamento ambientale rientrano ampiamente nella sfera delle sanzioni di tipo giuridico.
Detto questo, a mio parere, la violazione di un obbligo giuridico potrebbe e dovrebbe comportare anche una sanzione di tipo sociale. A lezione discutevamo del fatto che l'opinione pubblica di altri paesi é più propensa a mettere in atto condotte che comportino degli svantaggi economici per le imprese socialmente irresponsabili. Credo che le varie forme di sanzione sociale che potrebbero essere messe in atto dalla popolazione italiana nei confronti non solo di comportamenti socialmente irresponsabili ma anche e soprattutto di comportamenti illegali contribuirebbero a rafforzare ed affiancare le sanzioni giuridiche, e forse anche a conseguire obiettivi per i quali da sole non sempre sono sufficienti.

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Messaggio  0000723023 Mar Apr 05, 2016 3:02 pm

Concordo pienamente con quanto espresso. Si tratterebbe, in tal maniera, di parlare di responsabilità sociale a tutti gli effetti, in quanto anche la popolazione non farebbe altro che "scendere in campo" per "imporre" la propria idea o, quantomeno, condizionare l'operato delle singole imprese, riportandole (o, comunque, convincendole a muoversi) nella giusta direzione. Anche perché, di base, è la popolazione stessa la diretta beneficiaria dell'attuazione di politiche simili da parte delle singole imprese.
In tutto ciò, come detto sopra, non bisogna dimenticare delle numerose imprese italiane già aderenti al progetto e, dunque, già certificate SA8000.
Oltre alle imprese toscane, inserite nel programma Fabrica Ethica, sono numerose anche quelle emiliane. Per fare un esempio per tutte, basti pensare a "Granarolo S.p.a.", impresa italiana leader nel settore, con sede legale proprio a Bologna. Vagando per il suo sito, mi sono imbattuto nelle numerose iniziative portate avanti dalla impresa stessa, le quali mostrano la sua completa adesione ed attenzione alla responsabilità sociale. Granarolo S.p.a., infatti, già dal 2014, si è impegnata nella "sperimentazione di pratiche agricole innovative e di produzione foraggere con il fine di ridurre i gas emessi negli allevamenti dei bovini dei propri soci allevatori".
Da citare è, inoltre, anche il c.d. "Africa Milk Project", progetto avviato dalla stessa in Tanzania; sempre dal sito, è possibile leggere che " [...] Si tratta di una micro filiera del latte, un piccolo ma autosufficiente sistema agrozootecnico, in grado di produrre latte alimentare e distribuirlo a famiglie e scuole, assicurando cibo, lavoro e un’attività economica. Nel 2013, per dare visibilità a questa iniziativa, era stato promosso un concorso verso i consumatori. Nel 2014 i 6 vincitori sono stati testimoni attivi del progetto contribuendo attivamente alla sua diffusione. [...] Il progetto, a fine 2014, ha vinto il primo premio come migliore Best Practice nella categoria “Sviluppo sostenibile di piccole comunità rurali in aree marginali” [...]".
In conclusione, affermerei dunque che i buoni esempi esistono e, come tali, essi devono essere presi. In maniera quasi scontata, penso che servirebbe semplicemente emularli, non considerarli come delle eccezioni a delle regole (sbagliate).

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Messaggio  0000727606 Lun Apr 11, 2016 11:30 am

Ho avuto la possibilità di verificare gli effetti e le motivazioni delle maggiori certificazioni europee e italiane nell'ambito delle pmi del nostro Paese, grazie ad un personale tirocinio effettuato nell'ambito delle aziende di famiglia. Nel caso dei specie parliamo della certificazione ISO9000 a cui, per evidenti motivi, ritengo di poter accomunare la SA8000.
Ho constatato che tali certificazioni, ognuna per i propri standards, vengono conferite alle aziende che ne hanno fatto richiesta dopo che dipendenti delle medesime aziende hanno positivamente terminato i percorsi formativi relativi ad ogni singola certificazione.
Ritengo di non sbagliare affermando che l'obiettivo dell'ISO9000 della SA8000 ecc... sia quello della riorganizzazione del modus agendi interno dell'azienda. Ovvero sia l'individuazione delle migliori interconnessioni tra i lavoratori, utili a raggiungere un processo interno di lavoro quanto più in primis compatibile con le singole mansioni lavorative ed anche volto a snellire le singole procedure interne nel rispetto delle regole comportamentali.
Ciò sulla carta, in realtà, avendo avuto la possibilità di permanere all'interno dell'azienda prima e dopo l'ottenimento delle certificazioni, credo che le stesse rappresentino più che altro una conditio sine qua non per poter rimanere sul mercato e mantenere le proprie partnerships. Infatti è noto che per lavorare ad esempio quale sub fornitore, per grandi SPA, a prescindere da ogni altra considerazione, ci si deve munire di apposita certificazione di qualità a pena di perdita degli accordi commerciali.
Nel caso specifico da me visionato nel dettaglio la SRL da me visitata, che lavorava già da anni con una multinazionale americana,la Procter & Gamble,ha dovuto per i motivi detti certificarsi ISO9000.
Ho potute verificare successivamente che, sia nel processo produttivo sia nelle stanze amministrative, in realtà, nulla fosse cambiato, ponendosi per tanto la raggiunta certificazione solo come un fiore all'occhiello da poter esibire.
Tale stato di cose si è reso possibile poiché ab origine la P&G aveva preteso dalla srl in questione uno standard qualitativo talmente elevato da non aver bisogno di alcun ritocco ex ISO9000.
Sicuramente e probabilmente la maggior parte delle pmi non si trova ad operare con standard qualitativi così elevati. Motivo per il quale i principi derivanti dalle certificazioni potrebbero in teoria apportare qualche miglioramento nel ciclo produttivo e/o nella gestione amministrativa dell'azienda.
In ogni caso le esperienze vissute, anche in ambito agricolo, mi fanno ritenere oggi giorno che a determinare il modus operandi di ogni singola azienda siano le determinazioni degli imprenditori unitamente alle variabili aziendali che, continuamente mutevoli non possono sicuramente sempre passare per le asettiche prescrizioni e certificazioni europee, qualunque esse siano.
Per quanto riguarda in particolare la SA8000 che dovrebbe certificare l'impegno etico e sociale di un'impresa, ritengo che i temi cui mira la suddetta certificazione quali il rispetto dei diritti umani e di quelli dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, in particolare la garanzia di sicurezza del posto di lavoro altro non siano che requisiti standard che qualsiasi azienda dovrebbe possedere per poter operare oggi, sicuramente in occidente.
Una singola certificazione sul punto mi sembra più che altro una petizione di principio forse frutto della mia scarsa conoscenza delle ulteriori determinazioni della suddetta SA8000.
Ritengo di poter concludere queste brevi osservazioni precisando che, senza ombra di dubbio, fare impresa oggi in Italia, e soprattutto piccola impresa, è molto difficile per motivi di vario ordine ben noti a chiunque.
L'imprenditore per tanto a mio parere dovendo raggiungere quantomeno il pareggio di bilancio, in molti casi, pur possedendola/e sarà costretto alla non osservanza delle regole impostegli dalle varie certificazioni eventualmente possedute.

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Messaggio  363220 Lun Apr 18, 2016 10:09 pm

E' sicuramente un segnale importante quello che proviene dal mondo imprenditoriale italiano: il fatto che l' Italia sia il paese con il numero più alto di certificazioni Sa8000 mette nero su bianco il fatto che l'Italia e molte regioni italiane siano all'avanguardia nel settore della responsabilità sociale.
Al tempo stesso, però, è anche interessante notare che subito dopo l'Italia si posizionano in classifica paesi come la Cina e l'India, realtà che, almeno nell' immaginario collettivo, non sono immediatamente associate ad un approccio etico nei riguardi del mondo del lavoro.
Come abbiamo più volte ribadito la RSI comprende strumenti che aiutano a migliorare le modalità di svolgimento dell' attività lavorativa nell' impresa (e tutto ciò che vi gira attorno) puntando a standard qualitativi che sopravanzano quanto stabilito per legge ma, leggendo questi dati, mi chiedo se sia effettivamente in grado di riflettere la reale situazione della performance "sociale" di un intero sistema industriale nazionale.

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Messaggio  0000723023 Mar Apr 19, 2016 6:26 pm

Italia. Cina. India.
Letta così, questa (parte di) classifica sembrerebbe lasciare molti dubbi riguardo la sua attendibilità.
In realtà, in ogni caso, semplicemente, dovremmo non lasciarci trasportare eccessivamente dai luoghi comuni: Cina ed India, seppur rinomate come Paesi in cui difficilmente sembrerebbe inserirsi il tema della responsabilità sociale di impresa, sono due dei Paesi più grandi e popolati del mondo. Ciò sta a significare che non tutti gli individui ivi presenti possono corrispondere alla descrizione che noi ci prefiguriamo di loro, ovvero di soggetti che raramente possono pensare al "prossimo", all'ambiente circostante di lavoro e non. Questi individui, forse, sono addirittura l'eccezione alla regola.
Andando a considerare una classifica di tal genere solamente tramite l'utilizzo dei luoghi comuni, si andrebbe a screditare, inoltre, tutto il sistema che sta dietro la certificazione SA8000. Si tratta pur sempre di una certificazione che segue precise norme in materia di diritto del lavoro (plurime Convenzioni OIL nonché la Dichiarazioni dei diritti Umani, per citarne alcuni) e che, di certo, non vengono applicate alla rinfusa.
In sostanza, se Cina ed India si trovano in quella posizione in una classifica del genere, un motivo ci sarà.

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Messaggio  363220 Mar Apr 19, 2016 8:11 pm

Rispondendo all' ultimo commento: sì, certamente. Questo tipo di certificazione è sicuramente attendibile, affidabilità data anche dalla presenza di un albo internazionale di organismi legittimati a certificare; la lettura di questi dati non era volta a minare la sua credibilità ma ha semplicemente suscitato in me delle perplessità.
Sicuramente deve essere interpretata nella sua valenza positiva: il fatto che paesi come Cina ed India ma anche Pakistan e Romania che, al di là di ogni pregiudizio, non sono globalmente noti per l' attenzione prestata alle tematiche della RSI, stiano ottenendo un numero sempre più alto di certificazioni è sintomo di volontà di progresso e sviluppo.
Tuttavia, documentandomi, ho notato come è interessante notare che l' elevato numero di certificazioni (soprattutto nel continente asiatico) è strettamente connesso al fenomeno della delocalizzazione: numerosissime aziende certificate in Cina e Pakistan sono collegate a gruppi multinazionali europei ed americani.

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Messaggio  0000723023 Sab Mag 14, 2016 8:21 pm

Riguardo al fatto per il quale, in pratica, la maggior parte delle imprese certificate siano caratterizzate dall'essere il frutto di un mero meccanismo di delocalizzazione di imprese prettamente americane, in questi Paesi, (evidentemente, a causa di convenienti possibilità prettamente economiche, date anche dalle legislazioni spesso molto lascive), direi che possa essere considerato come un chiarissimo esempio di quanto, oramai, la globalizzazione abbia fatto il suo effetto.
La domanda sorgerebbe come lecita conseguenza a tutto ciò: senza queste imprese qui dislocate, Paesi quali Cina e Pakistan sarebbero davvero agli ultimi posti di una classifica simile?
In effetti, la risposta sembrerebbe abbastanza scontata. Infatti, come è già stato ampiamente riscontrato in molti altri post all'interno di questo gruppo del forum (e non solo), orari di lavoro estenuanti e (molto più che) precarie condizioni lavorative sono elementi tassativamente caratterizzanti negativamente le imprese di queste Paesi. Che la SA 8000 debba essere "aggiornata", al fine di poter sventare una eventuale (ma non impossibile) elusione dei controlli?

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