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Tentativi di collocazione della RSI

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Messaggio  0000723023 Lun Apr 18, 2016 11:58 am

Rileggendo il capitolo di Armando Tursi, ho nutrito interesse per la parte (alquanto complessa) in cui si tentava di avvicinare la responsabilità sociale d'impresa alle fonti del diritto, ipotizzando una sua regolamentazione ad opera dello Stato, del mercato e della società civile.
Ora, parlare di una RSI calata in uno di questi amibiti, significherebbe, in primis, dare per scontato che la stessa abbia a che fare con "la difesa, la promozione o addirittura l'imputazione giuridica di situazioni giuridiche soggettive in capo agli attori sociali" e che, per altro verso, vi sia effettiva "omologazione funzionale tra produzione normativa e autonomia negoziale". In altri termini, si deve sottintendere e, dunque, dare per assunto che la RSI riesca a fungere efficacemente come strumento di regolazione sociale.
Detto ciò, il professor Armando Tursi afferma che, di base, i modi per intendere la RSI siano tre (ovviamente, nessuno di questi è da considerarsi assolutamente pacifico):
  - si potrebbe intendere la RSI come guidata dalla "mano invisibile" del mercato, pienamente autonoma; eppure, così intendendola, si produrrebbero effetti gravi, portati alla luce dai neo-liberisti "ortodossi", per i quali ciò comporterebbe solamente "effetti distorsivi nell'allocazione delle risorse", in quanto le imprese sarebbero, dunque, spinte solamente all'ottenimento ed alla massimizzazione del profitto, così come aveva precedentemente affermato Milton Friedman;
  - per risolvere il problema di cui sopra, si potrebbe intendere la RSI come guidata dallo Stato: a causa dei moltissimi interessi pubblici che stanno dietro alle politiche simile, esso si ergerebbe a elemento fondamentale e decisivo al fine di convogliare tutte le diverse risorse nella giusta direzione, ovvero verso il "bene collettivo e pubblico". Ora, una collocazione di tal genere si troverebbe ad affrontare e superare, però, un ostacolo importante: "la individuazione degli obiettivi sociali e le modalità del loro perseguimento e finanziamento". E se questi due passaggi cruciali potrebbero essere risolti quasi facilmente a livello nazionale, i problemi sorgono a livello sovranazionale, in cui, praticamente, i singoli Stati, adottando i c.d. "standard internazionali" di derivazione (sovra)statale, non fanno altro che delegare la disciplina delle loro imprese a soggetti giuridici particolari, di incerta legittimazione democratica e, soprattutto, esterni ai confini su cui, spesso, le imprese stesse si muovono: in altri termini, si affida a terzi troppo "lontani" ciò che, in realtà, dovrebbe essere regolato con mezzi interni, finendo dunque per "depoliticizzare" la regolazione sociale;
  - infine, per risolvere, a sua volta, il problema di cui sopra, si potrebbe intendere la RSI come appartenente al c.d. "terzo settore", ovvero la società civile. Essa, infatti, potrebbe mediare il conflitto tramite l'impiego delle organizzazioni non governative, "organizzazioni partecipate e cogestite dalle aziende, strumentali alla pratica operativa della CSR nelle imprese", le quali possono essere for profit ma, nella stragrande maggioranza dei casi, si rivelano assolutamente non-profit. Come è stato possibile leggere, il loro scopo ultimo sembrerebbe essere quello di aiutare le singole imprese ad applicare le politiche di RSI, incentivandole in tal senso ad aderirvi tramite la proposizione di ulteriori standard internazionali, diversi da quelli di cui sopra, magari più accreditati. Un esempio per tutti, la SA8000, creata dalla SAI (Social Accountability International) - già trattata all'interno di un'altra discussione presente nel Gruppo 1 del forum-.

Tirando le somme, sono del parere che il ricorso alle ONG (Organizzazioni Non Governative) possa essere decisivo al fine di calare la RSI all'interno di un contesto ben definito e che, proprio grazie ad esse, continui ad aver valenza la "volontarietà" come requisito cardine di politiche in tal senso orientate: privata la RSI di tale caratteristica, si finirebbe per snaturarla del tutto. Contestualmente, si creerebbero ulteriori problemi, dal momento che si ricadrebbe all'interno del punto 2 (RSI gestita dallo Stato). E' per questi motivi che, ogni volta che leggo di iniziative di "normazione" o di "giuridicizzazione" di RSI nutro alcuni dubbi. La RSI dovrebbe, semplicemente, essere ciò che è adesso: uno strumento propriamente ausiliario, da applicare a discrezione delle imprese, a seconda di ciò che, per loro, possa sembrare o non sembrare giusto (senza, ovviamente, cadere nell'autoreferenzialità), la cui applicazione risulterebbe essere necessaria nel caso di insufficienza ma, soprattutto, incompletezza della legge.

Qual è il vostro pensiero al riguardo?

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Messaggio  0000723944 Lun Apr 18, 2016 5:37 pm

Nonostante io creda che il possibile contributo che le NGOs possono dare, sia nell'elaborazione di standards internazionali sia - in qualche misura - esercitando un controllo sulla loro applicazione compatibile con la natura non giuridica delle obbligazioni assunte dalle imprese in tema di RSI, mi permetto di rilevare due questioni.
La prima - sollevata dallo stesso Tursi - riguarda il fatto che, ricorrendo a esse, non viene meno il problema di legittimazione democratica e di de-politicizzazione della regolazione sociale evidenziato riguardo agli standards internazionali di derivazione sovra-statale (e i connessi inconvenienti, relativi all'affidare la regolazione sociale a soggetti "troppo lontani", messi in luce dal/dalla collega).
La seconda considerazione deriva dall'analisi di molti esperti, che vedono nella third-sector school una forma di composizione del conflitto tra mercato e società che "rifiuta l'idea che ad arbitrare il conflitto possano essere lo stato e le forze organizzate del lavoro, attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese". A mio parere, benché sia legittimo ritenere che la soluzione migliore sia affidare la RSI esclusivamente alle mani di organizzazioni non governative, ciò comporterebbe dover dar credito a chi sostiene che giuslavoristi e promotori della responsabilità sociale di impresa viaggiano su due binari differenti, essendo i primi radicati all'interno del diritto del lavoro tradizionale (italiano o dell'Europa continentale in genere), molto legificato e che assegna alla contrattazione collettiva e alle parti sociali un ruolo assai rilevante nella composizione del conflitto.
Per evitare che soggetti molto vicini all'impresa (molto influenzabili dalle politiche che essa adotta e molto esposti alle conseguenze di queste politiche) come i lavoratori stessi, che del resto sono una delle classi di stakeholders su cui gli studi in materia di RSI si sono concentrati, rimangano fuori dal processo di regolazione forse sarebbe necessario adottare una soluzione intermedia, che tenga conto del fatto che esistono due dimensioni della responsabilità sociale di impresa: una interna, e una esterna. Mentre nel caso della dimensione esterna lasciare che ad elaborare gli standards e a costituire, in generale, il punto di riferimento siano le NGOs può comportare parecchi vantaggi, per quanto riguarda la dimensione interna dovrebbe essere lasciato un qualche tipo di spazio ai dipendenti delle imprese socialmente responsabili nel determinare quali siano le politiche da mettere concretamente in atto.

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Messaggio  0000723023 Lun Apr 18, 2016 6:46 pm

Condivido con quanto appena espresso dal/dalla collega che ha precedentemente commentato.
In effetti, suddividere la RSI, idealmente, in due parti, una interna ed una esterna, non farebbe altro che renderla ancora più efficiente, sotto tutti i punti di vista: in altri termini, si tratterebbe di espanderla in numerosi altri campi, e, in tutti questi, nella maniera più approfondita possibile, data la specificità della sua azione. Inoltre, così agendo, continuerebbe a non venir meno, persistendo, il carattere della volontarietà che, come ho scritto precedentemente, risulta essere il punto cardine della questione.
Tuttavia, al riguardo, ho un timore: in breve, siamo sicuri che una "RSI dalla doppia faccia" non provochi un suo (potenziale ulteriore) snaturamento, dato dal fatto che, ad esempio, possano finire per accavallarsi standard su standard di diversa provenienza (da ONG e/o dai ddipendenti delle imprese) o, alla peggio, prassi e/o politiche di responsabilità sociale d'impresa diverse e contrastanti? Siamo sicuri che, con una RSI così intesa, non aumenti il rischio della autoreferenzialità?

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Messaggio  0000763029 Mer Apr 27, 2016 4:21 pm

Sono d'accordo con il/la collega riguardo alla non eliminazione del carattere della volontarietà che viene peraltro mantenuto anche se si parla di giuridicizzazione della rsi: volontarietà e libertà si esprimono nella vincolatività degli impegni "liberamente assunti" dall'impresa che decide di essere responsabile. Una doppia faccia della rsi renderebbe l'impresa certamente soggetta a maggiori controlli, la renderebbe più efficiente e più stimolata in relazione a problematiche sociali forti provenienti dall'esterno e presentate dall'interno. Sono d'accordo però anche sui dubbi che ha avuto il/la collega: una maggiore frammentazione delle politiche di rsi, l'esistenza di più "fonti o canali" e di diversi standard anche a mio parere finirebbe col rendere meno chiare e più confuse od occulte le stesse politiche di rsi che porterebbero alla produzione illimitata,frammentaria e discordante di diversi tipi di approcci e regolamentazioni in relazione ad ogni singolo problema. Si assisterebbe al mutamento totale della natura della responsabilità sociale e ogni impresa finirebbe inevitabilmente con l'avvalersi di proprie regole e statuizioni per giustificare la propria politica. Un giusto compromesso sarebbe quello di lasciare una certa libertà tentando però al contempo di porre dei limiti giuridici e di regolamentazione forti(quanto meno sulla base dei soli principi comuni ad ogni ordinamento) che non lascino spazio a quella frammentazione che andrebbe a minare l'unitarietà di scopo di una sana politica imprenditoriale che sia socialmente responsabile.

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Messaggio  0000723023 Gio Apr 28, 2016 5:33 pm

Ricollegandomi a quanto scritto dal/dalla collega precedente, concordo in parte con il suo intervento.
Una passo, però, mi lascia perplesso, ovvero quello del suo richiamo ad una regolamentazione della RSI basandosi su dei principi comuni a tutti gli ordinamenti. Procedendo in tal senso, credo si finirebbe per creare una sorta di "diritto meta-statale", anch'esso di non semplice attuazione, in quanto andrebbe a coinvolgere ordinamenti (spesso) molto diversi tra di loro, lontani non solamente da un punto di vista prettamente geografico ma anche, quasi semplicisticamente, da un punto di vista più ideologico nonché storico. Si tratterebbe, insomma, di mettere insieme culture spesso molto diverse, andando a limarle tenendo in considerazione i loro comuni denominatori. Sembrerebbe un lavoro (quasi) immane, se visto sotto questi aspetti!
Il tutto, tra l'altro, per poter perseguire un obiettivo (quello, cioè, della non-frammentazione della disciplina della RSI) identico a quello che si riuscirebbe a raggiungere (quasi) più agevolmente tramite il ricorso alle Organizzazioni Non Governative: in questo caso, non si tratta di studiare gli elementi ordinamentali comuni ai singoli Stati, bensì di "adattarsi", accettandoli, agli standard dalle stesse create.
Non risulterebbe, in conclusione, più conveniente (risparmio di tempo, in primis) affidarsi in toto alle ONG?  

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Messaggio  0000763029 Sab Apr 30, 2016 10:19 am

Quando ho parlato di principi "comuni" a tutti gli ordinamenti parlavo di quei valori che sul piano internazionale, al di là delle diversità culturali e storico/geografiche, accomunano gli stati di una determinata parte del mondo, più semplicemente quei valori che rientrano all'interno della comune coscienza collettiva che non si restringa al solo territorio nazionale..forse avrà ragione il/la collega e avrò travisato il senso della discussione andando un poco oltre ma per il momento mi limito a chiarire il mio punto di vista spiegando semplicemente che volevo riferirmi ad una sorta di teoria del margine di apprezzamento applicata alle imprese, che lasci quindi un minimo spazio di manovra entro certi limiti, un criterio di relatività che assicuri il rispetto delle diversità giuridiche, culturali e sociali delle imprese nei diversi paesi conciliate con l'applicazione uniforme di principi e valori che non possano essere traditi.

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Messaggio  725283 Ven Mag 13, 2016 10:04 am

Il tema della collocazione della RSI va di pari passo con quello della scelta degli strumenti diretti e indiretti che tale fenomeno adotterà per perseguire i suoi obiettivi. Infatti, per assioma, la collocazione normativa della RSI dipende in tutto e per tutto da quali meccanismi si mostreranno più efficaci per raggiungere gli obiettivi di etica sociale in ambito lavorativo e di rispetto dell'ambiente tipico delle RSI. Le vie "in teoria" percorribili sono tante e diverse fra loro, più o meno in linea con le funzioni e la struttura ideologica delle politiche di RSI. Un ricorso alla legge come fonte normativa di regolamentazione di base potrebbe essere efficace per i vincoli ai quali sottoporrebbe le imprese, ma si eluderebbe il carattere volontario che contraddistingue la RSI; una disciplina contrattuale farebbe rientrare il fenomeno all'interno delle dinamiche sindacali, con l'incertezza se affidarla alla contrattazione aziendale, più vicina alla realtà dell'impresa e quindi più efficace ma slegato da una disciplina unitaria che possa affermare come strumento stabile per il diritto del lavoro, o alla contrattazione nazionale. Poi si dovrebbe anche comprendere quale sia il raggio di azione più adatto per la realizzazione concreta di una politica stabile di RSI: limitarsi al contesto nazionale? ricorrere agli strumenti normativi (direttive, regolamenti) dell'UE? oppure cercare una linea guida unica a livello internazionale?
La scelta degli strumenti regolamentativi della disciplina della RSI ne determinerà anche la collocazione.

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Messaggio  0000723023 Ven Mag 13, 2016 7:13 pm

Caro collega, concordo (seppur parzialmente) con te nel momento in cui affermi che una legislazione riguardante la RSI potrebbe risultare effettivamente utile al fine di renderla quanto più cogente, valida, forte e seguita possibile. Ma come hai altrettanto bene affermato, verrebbe meno quel carattere fondamentale ed assoluto delle politiche di responsabilità sociale stessa, ovvero la volontarietà. Ecco, dunque, che ci si andrebbe a ricollegare con un quesito che ho più volte posto in alcuni miei post in questo forum: e se, venendo meno la volontarietà, si andrebbe a snaturare eccessivamente la RSI stessa, rendendola effettivamente debole?
In tutto ciò, concordo anche con te sulla possibilità di intraprendere molte vie che, se ben impiegate, potrebbero risultare molto utili. Ritengo, tuttavia, sia molto difficile estendere la responsabilità sociale di impresa ad un livello estremamente ampio, ovvero quello internazionale: se, di base, si andrebbe ad utilizzare la legge (contesto nazionale) o, in alternativa, delle direttive (contesto europeo), dubito sia possibile utilizzare un ulteriore strumento normativo così forte di livello internazionale, principalmente a causa della mancanza di un "Governo Internazionale" che, appunto, possa crearlo ed applicarlo.
Ecco, quindi, che si propenderebbe così ad un "uso" intensivo delle ONG, per poter sopperire a questa mancanza.

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