Un buon esempio di azione per la salvaguardia dell' ambiente

Riguardo le campagne per la sostenibilità promosse dalle varie aziende negli ambiti più diversi, vorrei segnalare un’ iniziativa che avrà luogo proprio nei prossimi  giorni. Il colosso di abbigliamento low cost “H&M”  presente in  57 paesi, propone la “Worl Recycle Week”, la prima campagna globale sul riciclo di abiti usati. L’ obiettivo è quello di promuovere il riciclo di abiti usati al fine di ottenere fibre tessili riciclate per creare nuovi prodotti. Si pensi che il riciclo di una sola T-shirt, può portare al risparmio di 2.100 litri d’ acqua. Inoltre l’ azienda punta a diminuire l’ effetto negativo sull’ ambiente che i vecchi vestiti causano nelle discariche di tutto il mondo. Riporto di seguito le dichiarazioni rilasciate da Anna Gedda, a capo del settore sostenibilità di H&M: “Vista la quantità di vestiti raccolti dall’avvio di questa iniziativa, sappiamo che la sostenibilità è una parte importante del modo in cui i nostri clienti vivono la moda e desideriamo che essi facciano parte integrante della soluzione. Credo che riusciremo a raccogliere 1.000 tonnellate di capi durante la Settimana mondiale del riciclo. L’obiettivo della Settimana mondiale del riciclo è cambiare il modo in cui le persone hanno cura dei propri indumenti. Le risorse del pianeta sono limitate. Vogliamo continuare ad apprezzare la moda, ma dobbiamo anche trovare un modo per fare un miglior uso delle risorse. H&M lavora per un futuro sostenibile della moda: tra le altre cose, desideriamo creare un circuito chiuso per la moda in cui i vecchi capi vengono trasformati in capi nuovi senza dover utilizzare materiali aggiuntivi.”

Caro/a collega, è vero l'iniziativa di H&M è nobile, ma questo come si combina con il made in Bangladesh o in altri paesi dove si sa che la manodopera è sfruttata e sottopagata? Come questa catena anche altre ovviamente, però sembra talvolta che certe aziende sviluppino queste idee solo per apparire difronte ai consumatori eticamente corretti, allora mi chiedo quanto è giusto che la RSI debba essere volontaria?

La volontarietà di comportamenti socialmente responsabili, quale potrebbe configurarsi l’iniziativa “World recycle week” promossa da H&M, presuppone un atteggiamento, prima che di volontarietà, di responsabilità. Non si può, di certo, considerare un comportamento responsabile quello di una catena di moda che, pur di apparire quale sostenitrice della salvaguardia dell’ambiente, promuove campagne di riciclo degli indumenti quando, quotidianamente lucra sullo sfruttamento minorile in Paesi, quali ad esempio l’Uzbekistan. Il Paese centro asiatico, infatti, è l’unico al mondo dove, ancora oggi, è il governo stesso ad organizzare il lavoro minorile nell'industria del cotone, venduto ai grandi marchi di moda. Durante la stagione della semina e del raccolto, le scuole vengono spesso chiuse per permettere l’utilizzo dei giovanissimi. I genitori devono accettare di mandare i figli nei campi, sotto la minaccia della perdita del posto di lavoro, e spesso non hanno alcun risarcimento per questo. Neppure le comunità locali hanno alcuna partecipazione nel profitto del governo dall'esportazione del cotone prodotto, che è di circa un miliardo di dollari all'anno. Dietro realtà come queste, ritengo che, iniziative come quella del “World recycle week”, quando vengono attuate da imprese che continuano a guadagnare sulle fatiche di bambini sfruttati , non possono assolutamente ritenersi come attuative di un progetto di RSI. Anzi, a mio parere, tali iniziative dovrebbero essere fermate proprio nel momento in cui vengono proposte da imprese già irresponsabili poiché si evidenzierebbero immediatamente come attività di immagine , come iniziative volte non a favorire la salvaguardia dell’ambiente bensì a sottolineare la contraddittorietà dell’impresa stessa. Penso, invece, che iniziative come quella del "World recycle week" siano da considerarsi ottimali e meritevoli di attuazione quando un'impresa già si configura come responsabile socialmente. E' giusto che prima si rispetti la dignità della persona che produce piuttosto che il riciclo di una maglia che, probabilmente è stata prodotta da un fanciullo sfruttato!

Concordo pienamente con la riflessione propostaci dal collega che ha scritto nel commento precedente. Ritengo inammissibile che talune grandi aziende promuovano queste iniziative di mera facciata legate a politiche di marketing sempre più focalizzate sulla salvaguardia dell'ambiente, per illudere un gruppo di stakeholder fermamente convinti del fatto che l'impresa operi responsabilmente a trecentosessanta gradi. Purtroppo al giorno d'oggi grandi brand di moda tendono sempre più a deviare l'attenzione del cliente, per fidelizzarlo ulteriormente, verso il ramo dell'eco-friendly, forse per dimostrare di essere al passo coi tempi e di non disattendere politiche aziendali internazionalmente diffuse. Ovunque vengono pubblicizzati e veicolati, soprattutto attraverso il web, nobili campagne di sensibilizzazione all'ecosostenibilità; ma se dietro questa massa di attivismo ambientale si cela un'azienda artefice di comprovati sfruttamenti minorili in quei paesi del mondo dove è possibile (ma soprattutto conveniente data l'elevata mole produttiva) produrre ingentemente col minimo costo, dove risiede l'eticità? Sembra quasi che, ormai, questa imperante eco-mania sia stata tanto millantata per distogliere la nostra attenzione da un'altra controversa problematica che affligge il settore capitalistico e imprenditoriale: il trattamento riservato ai lavoratori delle numerose fabbriche (appartenenti a multinazionali) delocalizzate in giro per il mondo. Non parlo dei lavoratori di piccole-medio imprese situate nel nostro territorio, ad esempio, cui sovente viene riservato un trattamento quasi paterno da parte dell'imprenditore, ma mi riferisco a quelle migliaia di persone (spesso sottopagate e purtroppo prevalentemente minorenni) disseminate nei più disagiati meandri del terzo mondo costrette, spesso per motivi di indigenza e di politiche governative - come nel caso dell'Uzbekistan -, a lavorare in condizioni a dir poco disumane e non confacenti le misure di sicurezza minime richieste.
Concedetemi la licenza poetica: "Se questa è RSI...".

Mi trovo indubbiamente d' accordo con le vostre osservazioni in merito al caso specifico ma ciò non toglie che l' idea che un' azienda X dalla significativa presenza sul territorio globale che promuove iniziative per la sostenibilità sia un buon metodo di sensibilizzazione sociale proprio per l' ampio raggio di consensi che può raccogliere. Sicuramente lo sfruttamento minorile e il lavoro sottopagato è l' altra faccia della medaglia che nel caso concreto risulta una problematica ben più grave del riciclo degli indumenti. Dunque, ritengo positiva l' iniziativa in quanto tale per l' impatto che essa può avere nella società ma non discuto, anzi mi trovo in pieno accordo riguardo la politica dell' azienda in esame in ambito di responsabilità sociale.

Ritengo che la campagna promossa da H&M sul riciclo di indumenti usati sia lodevole proprio per i fini che si propone cioè salvaguardare l' ambiente riducendo la massa di rifiuti e allo stesso tempo producendo capi di abbigliamento di moda a basso costo.
Se però questa azienda sfrutta il lavoro minorile certo è da condannare e sono sempre più convinta che su questo ci vogliano dei rigidi controlli e questi debbano essere pubblicati nei mass media in modo che gli utenti ne vengano a conoscenza e così la pubblicità che l' azienda ha voluto ottenere venga vanificata.

Quella di H&M è stata una fantastica idea, d'altronde ambiente e mondo delle imprese rappresentano due sistemi che interagiscono incessantemente tra di loro visto che è proprio l’ambiente in cui viviamo che garantisce le condizioni che consentono tutte le attività dell’uomo, attività imprenditoriali comprese. Tale consapevolezza ha portato H&M, in quella settimana, a coniugare efficienza economica, tutela ambientale e considerazione delle ricadute sociali della propria attività.

Spero che nel tempo, politica nazionale e sovranazionale, aziende, sindacato e mondo della ricerca "facciano rete" per ripensare in un’ottica globale e condivisa il rapporto tra tutela ambientale e produttività. Senza contare che il perseguimento della sostenibilità ambientale è una grande opportunità che, se saputa cogliere, può rivelarsi una fonte di incremento del reddito, di riduzione dei costi e di un migliore posizionamento nel mercato, usufruendo degli strumenti di ecogestione che il mercato stesso offre.

Aldilà dei riflessi sulle attività economiche e produttive, i lavoratori sono gli attori più colpiti dai cambiamenti necessari per il conseguimento dello sviluppo sostenibile. Per questa ragione indispensabile è la collaborazione delle parti sociali nella gestione delle trasformazioni industriali ed economiche e nel rispondere alla sfida della protezione dei posti di lavoro, accompagnata dalla garanzia di un ambiente di lavoro interno sicuro e salubre, con la salvaguardia dell’ambiente esterno. Le parti sociali, difatti, dovrebbero promuovere la partecipazione attiva e consapevole dei lavoratori e dei sindacati nel percorso verso lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente: solo così la condivisione di politiche ambientali aziendali virtuose e la riconversione tecnologica e industriale possono diventare la via maestra per assicurare la produttività e competitività in un’ azienda ecologically correct.

A questo proposito, ho letto giusto pochi giorni fa di un'iniziativa portata avanti da Fashion Revolution (fashionrevolution.org) lo scorso aprile per la quale era possibile fare una foto dei propri abiti con l'etichetta a vista e postarla sui social network con l'hashtag #whomademyclothes con il fine di ottenere dai produttori informazioni sulla storia dei propri abiti. Questo evento era in ricordo della tragedia di Rana Plaza, l'edificio crollato il 24 aprile 2013 a Dacca, in Bangladesh, la cui parte superiore era stata costruita senza permessi. In tale crollo furono coinvolti 1134 operai, che morirono, e oltre 2500 che riportarono ferite; molti di questi operai lavoravano per i marchi più famosi del cosiddetto "fast fashion", cioè le grandi catene di moda low cost (come, appunto, H&M).
Sono, così, andata a curiosare sul sito che ho indicato sopra: si spiega nel sito che "We believe that fashion can be made in a safe, clean and beautiful way. Where creativity, quality, environment and people are valued equally. On 18-24 April, Fashion Revolution Week will bring people from all over the world together to use the power of fashion to change the story for the people who make the world’s clothes and accessories."
Ancora: "We want to thank the makers. We want clothes that we will be proud to wear."
Questa mi è sembrata un'iniziativa lodevole soprattutto nel caso di aziende, come H&M, che dichiarano a parole una grande responsabilità sociale ma, nei fatti, sono molto meno responsabili. E' un bel modo di prendere voce, sensibilizzare i consumatori e anche, perchè no, i produttori. Cito ancora il sito di Fashion Revolution:
"It’s time to use your voice and your power to transform the fashion industry into a force for good.
It’s time for a Fashion Revolution."

La salvaguardia dell'ambiente è un tema molto delicato al giorno d'oggi, e adottare misure volte a tutelarlo è un comportamento nobile e lodevole, nonchè doveroso. Tuttavia, l'impresa H&M non penso possa essere considerata eticamente responsabile in considerazione dei fatti qua sopra esposti. La metafora "vado a fare del volontariato poi torno a casa e picchio mia moglie" penso possa raffigurare la dinamica in questione alla perfezione.