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La donna e RSI

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Messaggio  0000762703 Mar Mag 03, 2016 8:31 pm

Un' importante problematica che riguarda gli ambiti della responsabilità sociale d' impresa è quella della differenza di genere. È ormai un dato di fatto che, nonostante gli sforzi per eliminare atti discriminatori tra uomo e donna, il datore di lavoro preferisca assumere un lavoratore piuttosto che una lavoratrice. Il fatto che le donne siano considerate una categoria debole, da "proteggere" porta alla conseguenza che le donne abbiano molte meno possibilità degli uomini di aprirsi un varco nel mondo del lavoro e raggiungere obiettivi consoni alle loro aspirazioni e alla loro preparazione. L' impresa responsabile  dovrebbe impegnarsi concretamente nello sfruttare la forza lavoro femminile non solo per una questione di pari opportunità ma perché ciò gioverebbe anche all' attività produttiva dell'azienda stessa. Per fare ciò, forse, dovremmo partire dalla concezione sociale della famiglia. Secondo l' ottica generale, la donna non può fare carriera perché deve occuparsi anche dei bisogni della famiglia e dei figli e di conseguenza viene considerata una forza lavoro poco produttiva. Bisogna però ricordare che anche l' uomo è membro del nucleo familiare oltre che genitore. Dunque, piuttosto che portare la figura della donna alla pari di quella dell'uomo, non pensate debba avvenire il contrario?

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La donna e RSI Empty RSI e parificazione degli uomini alle donne

Messaggio  0000726131 Mar Mag 03, 2016 9:27 pm

Trovo particolarmente interessante lo spunto da te riportato. Purtroppo, rispetto a stereotipi riguardanti la concezione della famiglia e, in particolare, il ruolo della madre all’interno della stessa, il diritto del lavoro e i giuslavoristi possono poco o nulla. Per di più, come emerge da un rapporto di ricerca del 2005 svolto nell’ambito di alcuni paesi del sud Europa per conto della Commissione Europea, il legislatore, nel regolare la materia, mostra innumerevoli segni di incoerenza: i diritti (quali quello al congedo parentale) riconosciuti dalla legge sono costruiti in particolar modo attorno alla figura della madre, senza possibilità concrete di fruizione da parte degli altri componenti della famiglia. Si evidenzia, quindi, una totale incapacità di coniugare protezione e eguaglianza formale e sostanziale, che dovrebbero, al contrario, essere indissolubilmente connessi.

Più rilevanti sono invece le scelte e le politiche delle aziende nell’ambito di attività socialmente responsabili: per mezzo dell’incentivazione dell’uso dei congedi parentali da parte dei padri o della flessibilizzazione generalizzata dei tempi di lavoro, esse potrebbero offrire un valido tentativo di risoluzione del problema. Con concrete azioni positive a favore della parificazione degli uomini alle donne in ambito famigliare, a cui tu ti riferisci, le imprese aprono la strada a una terza possibile via: un giusto compromesso tra la visione della donna-madre del “familismo” tradizionalista e l’immagine della donna-carrierista dedita al lavoro à la façon des hommes.

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La donna e RSI Empty Responsabilità sociale dell'impresa e diversità di genere

Messaggio  0000723391 Mer Mag 04, 2016 9:40 am

Purtroppo la diversità di genere esiste ormai da sempre e continua ad essere presente in particolare nell'ambito della gestione delle risorse umane all'interno delle varie imprese.
Non è una novità infatti che ancor oggi, nel 2016, vi sia un evidente gap di genere all'interno del mondo del lavoro.
La donna viene considerata ancora una categoria debole, svantaggiata, molte aziende le ritengono un problema da fronteggiare quando invece dovrebbero essere considerate un valore aggiunto per l'impresa.
Se ci soffermiamo ad analizzare in particolare l'aspetto salariale, anche se negli ultimi anni si sono registrati leggeri aumenti a favore delle donne, gli uomini continuano comunque ancora a ricevere stipendi altamente maggiori in tutte le categorie, che siano dirigenti, quadri, impiegati od operai. Dall'ultimo "Rapporto sulle retribuzioni" pubblicato da OD&M Consulting si evince che rispetto allo stipendio medio dei dirigenti, le donne hanno uno scarto negativo del 5,5%, rispetto a quello di quadri e impiegati del 3,8%, rispetto a quello degli operai dell’11,9%.
In termini di retribuzione annua lorda, se un dirigente maschio guadagna 116mila euro, una donna ne guadagna 109mila, se un impiegato guadagna 31mila euro, un’impiegata ne guadagna 28mila, fino all’operaio che guadagna 25mila euro, contro i 21mila dell’operaia.

Vi propongo inoltre un intervento molto interessante che mi ha fatto riflettere in merito a questa questione tratto dall'ebook "Quando la comunicazione è attenta al genere" di Stefano Zamagni, Professore di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, Bologna Center:

"Un modo che giudico serio per affrontare il problema delle diversità di genere è quello di porsi una triplice domanda.
Primo, perché le imprese di oggi hanno necessità di giungere a un gender balance che riguardi tutti i gradini della scala aziendale e non solamente quelli di vertice? In altri termini, perché il management ha da essere bilingue, deve cioè saper parlare la lingua sia maschile sia femminile?
Secondo, perché è giunto il tempo di abbandonare l’immagine, tanto inflazionata, del tetto di cristallo in favore di quella, assai più pertinente, di pareti aziendali fatte di amianto di genere? Quanto a dire, perché non ha più senso chiedersi – come accadeva fino ad anni recenti – cosa c’è che non va con le donne se queste non riescono ad arrivare in cima alla gerarchia aziendale? In un tempo in cui quasi il 60% dei laureati sono donne, la cui performance professionale è, in media, superiore a quella degli uomini, la domanda giusta da sollevare è: cosa c’è che non va nelle imprese di oggi se non riescono ad attrarre o a garantire avanzamenti di carriera a coloro che ormai compongono la più parte del bacino dei talenti?
La terza domanda, infine, ha a che vedere con il metodo, cioè con la via che è opportuno seguire per giungere al gender balance con lo sforzo congiunto di uomini e donne. Perché pare così difficile intervenire sui cicli di carriera delle donne, notoriamente asincronici e sfasati rispetto a quelli degli uomini? L’organizzazione tayloristica del lavoro che si è affermata, in modo egemonico, nel corso del Novecento, prevede tre cicli distinti.
La carriera inizia negli anni venti, quando al giovane lavoratore si chiede di imparare a fare e soprattutto ad obbedire; accelera negli anni trenta, quando il neo-dirigente o funzionario deve mettere alla prova le sue abilità relazionali e le sue capacità di suscitare fiducia; consegue il picco negli anni quaranta, quando il dirigente spicca il volo verso il top management. Va da sé che questo pattern lineare e soprattutto ininterrotto, pensato per l’uomo bread winner, non si confà alla situazione della donna che, nel corso dei suoi anni trenta, intende generare figli e dedicarsi alla famiglia. Accade così quello che le statistiche puntualmente confermano: al loro rientro in azienda agli inizi del loro terzo ciclo, le donne trovano le posizioni apicali già occupate dagli uomini. Non sono dunque i figli ad impedire l’avanzamento di carriera delle donne quanto piuttosto il modo arcaico in cui continuano ad essere gestiti nelle imprese i cicli di carriera del personale.
Se le cose stanno come l’evidenza empirica suggerisce (che le aziende guidate da donne hanno aumentato più velocemente il fatturato e hanno accresciuto il margine operativo lordo chiudendo con maggior frequenza l’esercizio in utile); se cioè il divario di genere e le associate disparità salariali tra uomini e donne non solamente sono fenomeni incivili, ma anche economicamente dannosi, perché non si interviene? Perché mai solamente nell’ultimo quarto di secolo – in Italia assai meno – si è diffuso il convincimento secondo cui la questione di genere costituisca oggi per l’impresa una delle sfide più impegnative per la sua stessa sostenibilità?
L’ipotesi interpretativa che avanzo è che in parallelo con l’evento della globalizzazione e soprattutto della terza rivoluzione industriale le economie di mercato di tipo capitalistico sono andate soggette a un mutamento di fase, per così dire. Mentre il capitalismo della modernità – che aveva separato, anche in senso fisico, i luoghi di vita familiare dai luoghi di lavoro – vede la donna vocata principalmente al lavoro riproduttivo, il capitalismo della post-modernità va facendo rientrare a pieno titolo la donna anche nel sistema del lavoro produttivo. Perché? La ragione è presto detta. La grande novità delle nuove tecnologie è quella di rendere obsoleta (e quindi non più produttiva) l’organizzazione tayloristica del lavoro. Il 1911 è l’anno di pubblicazione in America della fondamentale opera di F. Taylor, un’opera che si richiama esplicitamente all’insegnamento dell’inglese Charles Babbage dei primi dell’Ottocento sulla divisione del lavoro e della cui nefasta influenza sulla condizione della donna scriverà poi il grande economista (e filosofo) J.S. Mill nel suo celebre saggio The subjection of women del 1869. Ebbene, come tutti gli esperti di organizzazione aziendale ben sanno – eccetto coloro che ancora si ostinano a leggere la realtà con l’occhiale dell’homo oeconomicus – una gestione vincente dell’impresa nelle condizioni attuali postula che vengano adottati principi e vengano trasferiti nell’agire quotidiano valori rispetto ai quali la donna esibisce un marcato vantaggio comparato nei confronti dell’uomo. Di che si tratta? Del principio di equità; del principio di reciprocità; del bilanciamento tra motivazioni estrinseche e motivazioni intrinseche.
Nel Fedro di Platone si legge: “Il solco sarà diritto [e il raccolto abbondante] se i due cavalli che trainano l’aratro procedono alla stessa velocità”. Quando il mondo dell’impresa, e più in generale del lavoro, prenderà finalmente atto della saggezza racchiusa in questo antico pensiero e comprenderà che genio maschile e genio femminile devono procedere assieme, complementarizzandosi in modo concorde, allora si sarà fatto un passo importante verso quella civilizzazione dell’economia di mercato di cui da qualche tempo si va parlando con insistenza crescente."

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Messaggio  0000342506 Mer Mag 04, 2016 4:17 pm

é ovvio che esista una DIVERSITà per quanto riguarda la donna, ma questa diversità è e deve essere considerata un valore in una società eguale. Attorno ad essa devono essere costruiti percorsi di valorizzazione che non possono essere "annacquati" in un indistinto obiettivo di pacifica convivenza "multi" (multietnica,multigenere,multireligiosa,etc.). Ben vengano politiche pro diversity,perchè anche le donne possono presentare ulteriori differenze che sono utili considerare in una efficiente ed equa gestione del capitale umano di un'impresa socialmente responsabile. Nel caso delle donne,occorre ridisegnare la selezione e soprattutto la gestione del personale in un'ottica che sappia trasformare il problema della presenza femminile in opportunità(per le donne stesse e per le aziende). Per realizzare questo obbiettivo occorre rinnovare l'organizzazione del lavoro in modo che sappia utilizzare al meglio i tempi e le professionalità effettivamente disponibili delle donne,in relazione alla loro concreta situazione nei diversi periodi della loro vita. Cosi operando si potrà garantire alle donne una prospettiva di effettiva "utilità" della loro partecipazione al mercato (interno ed esterno) del lavoro e al contempo si potrà garantire alle aziende una effettiva "utilità" della risorsa umana femminile. Capovolgere il paradigma della profezia di autoproduzione e persistenza della discriminazione statistica,che oltre ad offendere la dignità delle donne produce uno spreco di risorse che né le imprese né il paese si possono permettere. Il progresso deve esser segnato dal superamento della "semplice" repressione della discriminazione,pur necessaria,che rischia di indurre i datori di lavoro più accorti ad affinare le loro tecniche di discriminazione indiretta,per essere formalmente rispettosi della legge." La qualità del singolo è migliore quanto migliore è l'interazione tra i lavoratori del gruppo,capaci di rispettare il talento altrui ed esaltare reciprocamente le capacità espressive."

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Messaggio  0000722329 Gio Mag 05, 2016 10:04 pm

La nostra società deriva da una cultura tipicamente patriarcale, dove l'uomo "porta il pane a casa" mentre la donna si occupa dell'amministrazione casalinga e dei figli. Volenti o nolenti saremo sempre invasi da questo retaggio. Sè questa suddivisione sessista si manifesta nelle relazioni comuni, è inevitabile che anche i luoghi di lavoro ne siano impregnati. Infatti i datori di lavoro credono che la famiglia possa incidere poco sulla produttività degli uomini (in negativo), mentre può avere un grosso impatto su quella delle donne! Psicologicamente l'uomo sarebbe portato a migliorare sempre di più le proprie prestazioni lavorative per portare sempre più in alto la propria condizione familiare, talvolta trascurandola. Mentre la donna, da sempre associata allo spirito materno, sarebbe più propensa a trascurare il lavoro per dedicarsi alla propria famiglia o ancora meglio per formarne una. Sulla base di questa motivazione fu introdotta la clausola di nubilato (fortunatamente abrogata nel 1963), che permetteva ai datori di lavoro di licenziare le donne per giusta causa in caso di matrimonio. Oggi si cerca di superare questa convinzione (arretrata direi) talvolta riuscendoci talvolta no, per esempio imponendo alle società di avere una percentuale di donne sufficientemente alto da andare a ben rappresentare  tale genere.
Il problema dovrebbe essere eliminato a partire dall'alto e cioè dalla rappresentanza femminile al governo sia statale che europeo. A tal proposito possiamo parlare delle quote di genere che sono oggi lo strumento più rapido ed efficace di cui le nostre società dispongono per cercare di aumentare la rappresentanza politica femminile, in modo da far conquistare sempre più spazio all'interno delle assemblee dove vengono prese le decisioni politiche più importanti.
Quindi direi che ad una maggiore rappresentazione può corrispondere una maggiore protezione e quindi apertura dell'ordinamento nei confronti della donna, che può seppur ancora timidamente iniziare a rompere il glass ceiling che da sempre la blocca.

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Messaggio  0000728623 Ven Mag 06, 2016 10:28 am

E' certamente vero che ancora oggi, molto meno che in passato comunque, ci sia una diversità di genere nell'ambiente di lavoro.
La donna e l'uomo sono diversi sia per carattere che per indole, insomma per diversità di sesso. E' vero che le donne possono totalmente ricoprire ruoli più o meno importanti ed essere ai vertici di aziende piccole o grandi.
Non dimentichiamo, però, che ci debba essere una responsabilità effettiva da parte de due generi. Il lavoro intrapreso da una donna e da un uomo deve essere concepito e vissuto nel ruolo che gli compete e secondo quello che è il proprio fine/ideale da raggiungere nella vita.
E' naturale che la donna che lavori non sia in grado di conciliare/assolvere a tutto quello che è l'ambito della propria famiglia così come è altrettanto vero che l'uomo impegnato nel lavoro faccia fatica a conciliare il ruolo di padre/marito a tutto tondo. Occorre possedere intelligenza e capacità per assolvere ai diversi compiti.

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Messaggio  0000670642 Lun Mag 09, 2016 9:56 am

Buongiorno, nel 2016 senz'altro certe discriminazioni dovrebbero essere passate, ma forse siamo più indietro di quanto sembra. Nel mondo in generale e sopratutto nel mondo del lavoro la donna ha sempre avuto un trattamento diverso ed una considerazione diversa. Nel nostro paese le donne in molteplici situazioni vengo messe dietro all'uomo. In un'epoca di innovazioni e tecnlogia dove l'uomo sembra quasi essere, come diceva Marx, l'appendice della macchina, la donna sta trovando spiragli di luce, nelle pubbliche amministrazioni, nelle forze dell'ordine e in ambiti dove un tempo era poco considerata. Senz'altro bisogna tenere conto della disparità di trattamento che ancora oggi è pratica consuetudinaria di molti imprenditori e uomini in generale. Questo più che un problema politico è più un problema culturale e di arretratezza mentale. Si è positivi e propositivi quindi nel fatto che il futuro ponga limiti e garanzie sempre più ampie e sicure alle donne.

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Messaggio  0000726825 Lun Mag 09, 2016 2:31 pm

Il fatto che le donne purtroppo in molti, troppi settori di lavoro siano considerati dei soggetti deboli è forse una conseguenza delle dinamiche storiche che hanno avuto luogo fino a qualche decennio fa. Come giustamente sostenuto prima la nostra società (ma non solo) è stata per secoli una società di tipo patriarcale in cui vi era una padre- patriarca che esercitava un potere pressochè assoluto nella sua famiglia in virtù della sua posizione di supremazia economica e della subordinazione economica degli altri membri nei suoi confronti mentre gli altri soggetti erano tenuti all’obbedienza (la donna in particolare doveva anche allevare la prole). Tale concezione, per quanto in via di attenuazione a seguito dell’affermazione di figure femminili in vari campi, da quello lavorativo a quello scientifico , tende ancora a essere seguita da alcuni che vedono nella donna più il ruolo di madre che quello di lavoratrice. Ne è prova di ciò quella che Pietro Ichino chiama “discriminazione statistica” per la quale, l’imprenditore tende a catalogare i lavoratori per gruppi di categorie prevedendo quale può essere un loro costo aziendale (e per le donne tale costo è forse più alto che per altri, a causa dei congedi di maternità e altri tipi di permessi).
Naturalmente questo tipo di ragionamenti e credenze, debbono essere rivisti, alla luce della società nella quale viviamo dove la sfida vera è valorizzare la persona nella sua individualità: questo implica che forse è necessario che i padri si ritrovano a essere maggiormente coinvolti nell’educazione e nella crescita dei figli (creando un legame ancora più stretto con essi nell’età dell’infanzia e cercando di migliorare il loro aspetto paterno) e che le madri, che tradizionalmente non potevano affermare la loro individualità perché impegnate esclusivamente nell’educazione della prole, possano finalmente farlo tramite quell’attività di carattere strettamente personale che è il lavoro. Quindi è auspicabile forse un più equo riparto dei congedi parentali durante l’età infantile dei figli, per un più equo riparto di responsabilità genitoriali: “parificare le donne agli uomini nel lavoro ma parificare gli uomini alle donne nella gestione familiare” arricchendo il mondo del lavoro ancor più dell’ “quid femminile” che può essere propulsivo di nuove idee e quindi di nuova ricchezza e arricchendo il mondo familiare del “quid maschile” che può contribuire a rendere più stabile la struttura familiare.
Oltre a ciò uno strumento per cercare di valorizzare l’occupazione femminile sono le azione positive che cercando di rimuovere le diseguaglianze sostanziali (in tal caso fra uomo e donna), le quali hanno avuto finora scarso successo (la loro sussistenza era strettamente legata alla presenza di sussidi economici) e che andrebbero implementate in maniera più robusta e non “discriminatoria”, cioè in modo tale da favorire il lavoro femminile ma senza cadere nella tentazione di emarginare quello maschile.

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Messaggio  0000658795 Lun Mag 09, 2016 5:26 pm

trovo molto interessante lo spunto evidenziato perché è un argomento che è purtroppo sempre molto attuale. Giorni fa mi è capitato di leggere una ricerca condotta dalla dottoressa Aliberti proprio sul tema. La stessa ha documentato lo sviluppo a cui si è esposta la condizione femminile rispetto al passato ma anche come i brillanti successi registrati nello studio e nella fruizione culturale non vengono adeguatamente ricompensati nel momento in cui le donne accedono al mondo del lavoro; o meglio servono alle donne per superare più facilmente barriere all’ingresso ma non per trovare un lavoro adeguato al titolo di studio raggiunto perlomeno all’inizio della vita lavorativa. La dottoressa ha infatti condotto una ricerca nella quale ha evidenziato che a tre anni dal conseguimento del diploma o della laurea le donne risultano essere svantaggiate rispetto al lavoro quale che sia il titolo di studio posseduto: le diplomate che lavorano sono il 52,7 per cento contro il 58,7 per cento dei maschi, le laureate il 69 per cento contro il 79 per cento dei maschi. Lo svantaggio femminile cresce nel Mezzogiorno, solo il 40 per cento delle diplomate e il 53,7 per cento delle laureate a tre anni dal titolo di studio ha un lavoro contro il 54,8 per cento dei diplomati e il 69,2 per cento dei laureati. Nelle altre zone lo svantaggio è minore e nel Nord le diplomate presentano un tasso di occupazione più elevato dei diplomati (67,2 per cento contro 64,3 per cento). Inoltre il livello di occupazione femminile cresce accentuando una struttura diversa da quella maschile. Le donne sono più “impiegate“ degli uomini (45 per cento contro 24,9 per cento ) e meno operaie. è migliorata la posizione professionale delle donne perché aumentano le imprenditrici, le dirigenti e le occupate con posizione di direttivo o quadro mentre diminuiscono le lavoratrici in proprio e le coadiuvanti familiari. Il numero delle libere professioniste è più che raddoppiato, tuttavia la presenza delle donne nei luoghi decisionali alti, nonostante la dinamica segnalata, presenta ancora forti criticità. Oltre che i dati abbastanza scoraggianti sono rimasta anche abbastanza basita quando nel partecipare in prima persona ad un colloquio lavorativo una delle più pregnanti domande era rivolta alla mia volontà futura di avere figli e dell'eventuale numero che ne avessi desiderati, domanda ben fuori luogo rispetto alla mansione per la quale ero in concorrenza. La mia esperienza personale unita ai dati della dottoressa sono un evidente simbolo di come effettivamente la donna sia sempre sottoposta ad una pressione psicologica maggiore circa le proprie aspettative future e ad uno scetticismo tutt'altro che giustificato per il suo inserimento nelle migliori cariche, dati tutt'altro che giustificati al millennio corrente.

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Messaggio  0000726160 Mar Mag 10, 2016 8:57 am

«I miei figli mi hanno permesso di lavorare fino al venerdì, uno è nato di sabato e l’altro di domenica. Ho lavorato fino all’ultimo giorno prima del parto e mi sono portata una cartelletta in ospedale con le istruzioni da dare a mia sorella».

«Alle 8 porto fuori il cagnolino, alle 8.30 vengo in azienda e sto qui fino alle 11.30 perché poi vado a casa da mio padre, preparo il pranzo per il marito e i figli. Torno alle 14.30 e sto fino alle 18 o alle 19. Qualche volta fino alle 20, dipende da cosa c’è da fare».

Queste sono alcune testimonianze di donne in carriera che riescono a coinciliare piu che perfettamente le esigenze di vita familiare con quelle di lavoro , non sentendosi minacciate dallo stereotipo che il datore di lavoro ha nei confronti dell'ideale della donna lavoratrice. Le imprenditrici o le dipendenti acrobate non credono allo stereotipo dell’inconciliabilità tra carriera e famiglia che tanto fa discutere le manager. Il segreto sta nei ruoli familiari che sono molto flessibili e informali e quindi consentono cose altrimenti impensabili. Perciò la disciplina dei congedi se utilizzata in maniera bilaterale e se ovviamente l'impresa si pone l'obiettivo sociale di garantire a uomini e donne le stesse opportunità e modalità di lavoro ,si raggiungerebbe l'obiettivo della non discriminazione e della parità di trattamento ,allo stesso tempo riducendo dispersioni di capitale. La RSI è andare oltre gli obblighi di legge , oltre le normative comunitarie , oltre le quote rosa, la RSI è un sistema che si pone di tutelare la società ,in questo caso le donne, per consentire un progresso rispettoso dell'uomo e dell'ambiente in cui vive.

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Messaggio  0000723106 Mar Mag 10, 2016 9:34 am

Se ci rifacciamo ai dati riportati dall’Ocse riguardo all’occupazione femminile in Svezia (giusto per fare un esempio), abbiamo un elemento che testimonia che il problema dell’occupazione femminile non sono le donne in sé, siccome la percentuale delle lavoratrici si aggira attorno al 70%. La Svezia insieme alla Danimarca e altri paesi del paradiso scandinavo investono molte risorse per permettere a coloro che hanno perso la propria occupazione di non uscire dal mercato del lavoro e di continuare ad essere sempre soggetti appetibili.
Con la nuova riforma del lavoro attuata con i decreti del Job’s Act si è cercato di dare un simile orientamento anche al nostro diritto del lavoro (e ora vedremo pian piano gli effetti di tali misure).
Ma in questo forum parliamo di RSI e quindi dei comportamenti adottati dagli imprenditori e non delle misure di legge che favoriscono l’occupazione femminile. Allora dobbiamo porci qualche domanda sul perché il datore di lavoro preferisca assumere lavoratori di sesso maschile piuttosto che lavoratrici donne.
La risposta è lungi dall’essere ovvia. Alcuni motivi sono palesi e comunemente riconosciuti e si ricollocano quasi tutti nell’ambito della maternità e dei vari congedi che questa prevede. Ma siamo davvero sicuri che questo sia l’unico motivo per il quale una lavoratrice donna risulti sconveniente per il datore di lavoro?
Mettendo a confronto un lavoratore e una lavoratrice non è detto che la seconda sia più assenteista per il fatto che ‘’debba provvedere ai bisogni della famiglia e dei figli’’. Anche un uomo potrebbe assentarsi spesso e per lunghi periodi dal lavoro, ad esempio abusando della sospensione del lavoro per malattia, o chiedendo spesso permessi lavorativi, per non parlare anche della possibilità di tutti quei congedi che vengono riconosciuti ai lavoratori di sesso maschile.
Io personalmente credo che il lavoro femminile sia sottovalutato in sé, non tanto per la possibilità che queste un giorno possano chiedere il congedo di maternità o chiedere la riduzione dell’orario di lavoro ma più per il fatto che non siano all’altezza di compiere allo stesso modo le mansioni che normalmente vengono eseguite dai lavoratori di sesso maschile.
Un argomento a favore della mia tesi è individuabile nel clamoroso caso tedesco (85 BVerfGE 191, 1992) promosso davanti alla Corte Costituzionale Federale Tedesca i n cui delle lavoratrici donne lamentavano il divieto di prestare lavoro nei turni notturni perché il datore di lavoro non le riteneva in grado fisicamente di poter eseguire le stesse prestazioni dei lavoratori. Davanti alla Corte Federale (direi anche in seguito ad un certo imbarazzo che il caso suscitò) il datore provò a difendersi sostenendo che il divieto era una misura a sostegno della protezione delle donne stesse, in quanto terminando i loro turni a tarda notte potevano incorrere in diversi pericoli.
Nel caso soprariportato le donne sono state messe in un secondo piano, ledendo il loro diritto di essere retribuite quanto gli uomini (siccome i turni serali permettono un guadagno extra), non tanto per una loro incapacità comprovata, non tanto perché queste fossero madri o avessero chiesto qualche congedo, ma sul semplice fatto che per un pregiudizio molto diffuso nel mondo del lavoro, queste non sono in grado di compiere le stesse mansioni in particolari condizioni.
Sarebbe certamente una scelta socialmente responsabile andare oltre questi banali pregiudizi e luoghi comuni e cominciare ad assumere un maggior numero di donne nelle proprie imprese.

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Messaggio  0000729289 Gio Mag 12, 2016 8:29 am

Purtroppo,ancora oggi, molte donne dopo la nascita del primo figlio incontrano molte difficoltà nel mondo lavorativo. Spesso rinunciano a lavorare ed in alcuni casi sono spinte dalla stessa azienda a cedere la loro mansione a un collega uomo. Per fortuna, ultimamente sono nate delle associazioni che cercano di arginare questo problema. Ad esempio in Svizzera, nel 1990 è nata l'associazione Dialogare che attraverso lo Sportello Donna cerca di dare aiuti concreti alle donne che vogliono reinserirsi nel mondo del lavoro.Infatti, vengono offerti corsi di riqualificazione professionale per rientrare in modo attivo nella propria professione.In questi mesi in Svizzera sempre più donne cercano di cogliere questa opportunità.
A mio avviso le imprese italiane potrebbero farsi carico di questo progetto ed attivare corsi di riqualificazione professionale , ciò favorirebbe anche la responsabilizzazione dell'impresa.

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La donna e RSI Empty job Act: violenza sulle donne resta non tutelata

Messaggio  0000702393 Gio Mag 12, 2016 1:01 pm

Nel job Act l'occupazione femminile è una priorità che manca. Nessuno degli aspetti che rendono critico il rapporto tra donne e lavoro in Italia vengono risolti dalla riforma Renzi-Poletti. I tassi di occupazione restano al palo, la disoccupazione femminile aumenta, la maternità continua ad essere un ostacolo al lavoro delle donne. I timidi interventi sulla conciliazione vita lavoro, che pur regolamentano aspetti importanti, non appaiono risolutivi per aprire il mercato del lavoro alle donne. E’ assente qualunque riflessione di carattere economico e fiscale. E’ assente qualunque strategia o investimento di lungo periodo.I governi del nostro Paese non hanno mai considerato l’occupazione femminile come prioritaria, un vero motore per lo sviluppo. Lo deve diventare: l’assenza delle donne dal mercato produce perdite di Pil stimate intorno al 27%. Il pieno potenziale di mercato delle donne produrrebbe, negli Usa, un aumento del Prodotto interno lordo del 5%, in Giappone del 9%.Cosa è accaduto un anno di Jobs act all’occupazione femminile? Ad un anno dal decreto istitutivo del contratto a tutele crescenti (4 marzo 2015 n.23), per le donne, i dati restano sconfortanti (Istat). Il 2015 si è chiuso senza nessun balzo in avanti per i tassi di occupazione per le donne e l’Italia si trova agli ultimi posti in Europa per occupazione femminile.La situazione più critica continua a registrarsi al Sud: in Campania, Sicilia e Calabria dove il tasso di disoccupazione femminile è più alto rispetto al nord Italia.Vorrei però porre l'attenzione ad un tematica fondamentale relativa alle donne e che ad oggi non vi è ancora nessuna tutela per le donne vittime di violenza, nonostante l’introduzione nel decreto attuativo del Jobs Act – D.lgs. 80/2015 – del congedo per le donne vittime di violenza che intraprendono percorsi di protezione
La legge prevede per le lavoratrici dipendenti sia pubbliche che private, e per le collaboratrici a progetto, inserite in percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al loro percorso di protezione per un periodo massimo di tre mesi. Dopo mesi dall’entrata in vigore del decreto tale diritto è ancora scritto sulla carta ma non è esigibile.
La responsabilità della mancata esigibilità ricade interamente sull’Inps nazionale, che non ha ancora emanato in proposito la circolare applicativa. Il fatto, già grave in sé, lo è ancor di più considerato il carattere sperimentale triennale e non strutturale del provvedimento.
L’obiettivo che si prefigge la norma è quello di sostenere le donne non soltanto in termini di sicurezza individuale, ma anche sotto il profilo dell’indipendenza economica, riconoscendo loro il diritto a tre mesi di astensione retribuita dal lavoro.
Le lavoratrici che subiscono violenza hanno diritto ad astenersi dal lavoro per un periodo di tre mesi, anche non continuativo, interamente retribuito. È anche prevista la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, nonché l’opportunità di essere nuovamente trasformato, a seconda delle esigenze della lavoratrice, in rapporto di lavoro a tempo pieno.
Il Decreto dà anche la facoltà alle collaboratrici a progetto di sospendere il rapporto contrattuale per motivi connessi allo svolgimento dei suddetti percorsi di protezione.
Questi ritardi nell’applicazione sono estremamente gravi, perché l’esposizione alla violenza è legata anche alle condizioni occupazionali ed economiche, peggiorate con la crisi, e la mancanza di un lavoro e di un reddito impedisce di recidere il legame con mariti, compagni o familiari violenti.
Il contrasto alla violenza di genere passa anche da qui. I dati sulle donne che subiscono o hanno subito violenza nel nostro Paese sono drammatici: quasi 7 milioni, un terzo della popolazione femminile tra i 16 e i 70 anni. Contrastare questo gravissimo fenomeno è doveroso, a partire dalla applicazioni delle leggi. Troppo spesso il Governo ha propagandato azioni a vantaggio delle donne che poi sono rimaste lettera morta.

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Messaggio  0000727032 Gio Mag 12, 2016 2:53 pm

L'articolo 3 della nostra Costituzione recita: "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Questo articolo fondamentale della nostra carta costituzionale, al secondo comma, affida allo Stato il compito, attraverso la forza generale ed astratta della legge, di garantire l'eguaglianza anche fra uomo e donna. L'articolo 3 è un contenitore molto ampio, all'interno del quale possiamo ricondurre questo principio.
Un interessante articolo, pubblicato il 09/05/16 da "Almalaurea" ci presenta questa triste situazione che vorrei riportare:

"Mentre sono le donne ad avere performance universitarie più brillanti rispetto ai loro colleghi uomini, sia in termini di regolarità negli studi che di voti, in ogni percorso di studi.
In base ai due Rapporti emerge che tra i laureati del 2015 è nettamente più elevata la presenza della componente femminile, il 60%. La quota delle donne che si laureano in corso è il 48% contro il 44% degli uomini (la media nazionale è 47%) e il voto medio di laurea è pari a 103,2 su 110 per le prime e a 101,1 per i secondi (è 102,3 per la media nazionale). Ciò è confermato in ogni percorso disciplinare e a parità di ogni altra condizione (origine sociale, studi pre-universitari, ecc.).

Il differenziale occupazionale, a un anno dalla laurea, raggiunge quasi 15 punti percentuali tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione, considerando solo quanti non lavoravano alla laurea, è pari al 41,5% tra gli uomini, contro il 27% delle laureate), mentre scende di circa 10 punti percentuali, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 50,5% contro il 41%, rispettivamente).
A cinque anni dalla laurea, si conferma il differenziale: 28 punti percentuali tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione è pari all’85% tra gli uomini, contro il 57% delle laureate), mentre scende fino a 9 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 81% contro il 72%, rispettivamente).
Anche nel confronto tra laureate, chi ha figli risulta penalizzata: a un anno dal titolo lavora il 41% delle laureate senza prole e il 27% di quelle con figli (un differenziale di 14 punti percentuali). A cinque anni il divario permane (15 punti percentuali): lavora il 72% delle laureate senza prole e il 57% di quelle con figli."

Il Jobs Act, per concludere, nonostante offra alcune misure sul tema della maternità e sul tema della conciliazione vita-lavoro, non sembra aver risolto, nemmeno in parte, il problema. «Siamo al paradosso che le donne sono considerate a “rischio maternità”, quando fare figli è una opportunità per se stesse e per l’intera società».

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Messaggio  0000723276 Dom Mag 15, 2016 11:35 am

L’uguaglianza è uno degli aspetti della giustizia, cui tutte le società aspirano. Tuttavia, non è facile da definire. Noi vogliamo l’uguaglianza, ma ci farebbe orrore una società tutta di uguali, dove gli esseri umani fossero come le formiche in un formicaio o le pecore in un gregge. Reclamiamo l’uguaglianza, ma anche la possibilità di coltivare le differenze che ci rendono gli uni diversi dagli altri e ci permettono di sviluppare le nostre rispettive e irripetibili personalità. Occorre dunque distinguere l’uguaglianza che rende tutti uguali, secondo uno solo modello, cioè l’ugualitarismo, tipico delle “società chiuse” che sopprimono la libertà, dall'uguaglianza che permette a tutti, nella stessa misura, di essere se stessi, cioè l’uguaglianza tipica delle “società aperte” che promuovono la libertà. Sono due concezioni di uguaglianza antagoniste, che delineano due opposti tipi di società. Considerare la maternità un rischio mi sembra allucinante e tipico delle “società chiuse”: procreare è naturale! Così com'è naturale esser contagiati da un virus e richiedere la malattia. Molte donne riescono a lavorare fino all'ottavo mese di gravidanza ed altre fino al nono: con questa riflessione vorrei sottolineare il valore della donna che non ha eguali. Il mio pensiero va a Luisa Spagnoli, donna, moglie, madre ed imprenditrice. Ella fu promotrice e creatrice del Bacio Perugina; nei primi anni del Novecento, destreggiandosi tra mille difficoltà e altrettanti retaggi culturali, trasformò i suoi sogni in "impresa", prima fondando l'impero dolciario della Perugina e poi dando vita ad un marchio di moda che conquistò il mondo trasformando un "semplice nome", il suo, "Luisa Spagnoli", in una vera e propria icona dello stile made in Italy. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, Luisa Spagnoli, che aveva già avviato la fabbrica perugina di dolci, non volle che quest’ultima chiudesse o venisse arrestata dalla partenza dei mariti in guerra. Riporto il discorso che lei fece alle sue collaboratrici, tutte donne, quando gli uomini erano partiti per la guerra e si doveva portare avanti la fabbrica di dolci. “ Fino ad oggi le donne sono state escluse dal lavoro. Ma ora che i nostri uomini sono al fronte, dobbiamo dimostrare che valiamo quanto loro e che la fabbrica è in buone mani! Abbiamo appena vinto la gara d’appalto dell’esercito: d’ora in poi, i nostri uomini, i nostri figli mangeranno la nostra cioccolata e, per questo, deve essere la migliore, la più energetica, deve sfamarli, tenerli svegli! Quando la mangeranno devono sentire che noi li amiamo e che non vediamo l’ora di riabbracciarli. Ma, per fare questo, dobbiamo compiere una piccola rivoluzione. Io lo so cosa significa essere madre, moglie e dover lavorare e, proprio perché lo so, ho deciso che noi ci organizzeremo diversamente da come si è sempre fatto: d’ora in poi, chi ha figli piccoli potrà affidarli ad una sorvegliante che li farà giocare qui in fabbrica; per i neonati, invece, ci sarà una stanza dove potranno dormire tutti insieme e, quando sarà il momento della poppata, le mamme verranno avvertite subito per telefono e potranno lasciare immediatamente il posto di lavoro. E, soprattutto, il tempo che dedicherete all'allattamento vi verrà retribuito. Io sono nata povera come voi e so quanto può essere difficile la vita! Ma ho giurato a me stessa di volerla rendere più semplice e più dolce, per noi e per i nostri figli. Ci riusciremo, ne sono certa! Se lavoreremo tutte insieme come una sola persona!””
E se anche oggi, le giovani donne decidessero di compiere una rivoluzione facendo in modo che, nel periodo post parto, potessero, nei luoghi di lavoro, vivere la loro maternità?! Socialmente si assisterebbe ad uno stravolgimento: gli asili nido sorgerebbero conseguentemente alla nascita di fabbriche e sarebbero accorpati a queste; ogni impresa si doterebbe di uno studio di ginecologia e di ostetricia e, soprattutto, ci sarebbe meno disoccupazione! D'altronde, in quale modo migliore si potrebbe concretizzare la RSI! Vi sembra realizzabile questo? Sarebbe un sogno o un’utopia? Lascio a voi le riflessioni…

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La donna e RSI Empty "Quote rosa" un bene o un male?

Messaggio  626865 Dom Mag 15, 2016 2:03 pm

Quando si parla di relazioni e rapporti sociali, come sempre ci si trova di fronte a posizioni spesso divergenti.
Un tema,che ha diviso molto è stato quello della volontà di introdurre le cosiddette quote rosa.
Ma questa attenzione al genere femminile, socialmente può essere uni strumento utile alla parificazione del genere maschile e del genere femminile?
A mio avviso,in parte qua.
È chiaro e ben definito che i due generi siano completamente diversi, e che per questo nella storia della sociologia ci siano stati sviluppi,avvicinamenti,ma mai una esatta è precisa sovrapposizione dei due generi.
La scelta di introdurre degli spazi lavorativi "riservati" alle donne,può essere un passo ulteriore per un tentativo di avvicinamento,ma che però va somministrato con assoluta attenzione,per evitare che invece,si sottolinei con ancora maggiore evidenza la differenza .
Un esempio sulla mia esperienza lavorativa,come arbitro di pallacanestro; l'introduzione di un "progetto donna".
Progetto volto a dare spazio alle donne nella carriera arbitrale,quindi non solo a livello amatoriale,ma anche a livello professionistico. (Nazionale ed internazionale).
Un progetto nato con le migliori intenzioni,ma che con il passare degli anni, lo sta facendo apparire, agli occhi dei colleghi maschi come la creazione di una corsia preferenziale ,per gli arbitri donna.
Un modo per togliere posti a chi si impegna,alla pari ,se non di più di una collega,ma che non rientrando nel progetto , non riesce a raggiungere il livello superiore,perché ostacolato dalla presenza di quei due tre posti riservati .
Concludendo,ritengo che l'introduzione di progetti,quote,spazi maggiori alle donne,siano cosa assolutamente dovute e di cui abbiamo diritto.
Questo, in quanto viviamo in uno stato di diritto,e in uno stato europeo,e che guarda all'apertura mentale,e non ad una retrocessione,
Ma credo che però essi vadano studiati nei minimi dettagli,cercando di non far apparire la donna ancora di più come diversa e debole, e che quindi ha bisogno di corsie preferenziali,per raggiungere livelli alti, perché non riesce ad uscirne vincente da sola.
Le quote,le maggiori attenzioni,devono esserci,ma deve rimanere quello spazio di movimento,da permettere di dimostrare sul campo,professionalmente davanti al pari del collega,che lei vale di più .

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Messaggio  746267 Dom Mag 15, 2016 2:10 pm

Proprio nella Responsabilità sociale delle imprese è riposta grande aspettativa per la diffusione degli obiettivi delle pari opportunità uomo-donna, favorendo la parità di trattamento e di uguaglianza, l’eliminazione di discriminazioni, l’abbattimento di ostacoli alla partecipazione in ogni ambito della vita, la valorizzazione delle diversità e dei bisogni. Infatti un’impresa socialmente responsabile non può esimersi dall’applicare tali principi.
Le pari opportunità non devono, infatti, definirsi come “un problema delle donne”, ma devono assurgere a occasioni per migliorare la vita,lavorativa e sociale, sia degli uomini sia delle donne.
Gli sforzi dell’Europa per eliminare barriere e discriminazioni che ricadono sulle donne sono parecchi e forti, a cominciare dall’inserimento delle pari opportunità tra i quattro pilastri della Strategia Europea
per l’occupazione.
Come le pari opportunità, così la conciliazione dei tempi di lavoro e cura è un altro elemento determinante per l’affermazione delle donne nell’ambito lavorativo. È necessario infatti cambiare la
conciliazione per migliorare la vita degli uomini e delle donne, partendo dal presupposto che una vita più agevole può aumentare la produttività di chi lavora.
Oggi le donne lavorano più di un tempo, studiano più di un tempo ma questi risultati non si concretizzano in una condizione, tanto che si può affermare che le donne non stanno nel lavoro come si meriterebbero, intendendo con tale affermazione denunciare una condizione che si ritrova in tutte le tipologie lavorative.

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