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Una, nessuna, centomila RSI

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Messaggio  0000724755 Lun Apr 04, 2016 10:22 am

Mi piacerebbe introdurre in questa discussione spunti di riflessione e dibattito riguardo al tema che secondo me è il vero punto cruciale della responsabilità sociale d’impresa, vale a dire le contraddizioni che è possibile si vengano a creare.

Per spiegare meglio quello che voglio dire, partirò dallo spunto che può dare in materia l’esperienza di Adriano Olivetti, per poi concentrarmi su un caso che potremmo definire come perlomeno controverso, vale a dire quello del Gruppo Fiat Chrysler Automobiles.

L’esperienza di Adriano Olivetti, che va grossomodo dal 1932 al 1960, parte dall’assunto che sia possibile trovare nell’attività di fabbrica qualcosa che superi, vada oltre alla semplice ricerca del profitto, al ritmo continuo e pressante di un insieme di macchinari; che sono rilevanti gli indici di profitto, ma allo stesso tempo per questi non possono essere lasciati indietro le relazioni con i dipendenti, il capitale umano, le responsabilità nei confronti del territorio e della comunità tutta (di quelli che oggi verrebbero detti stakeholder): Olivetti era un visionario, un illuminato, che vedeva nell’impresa un centro di creazione e diffusione di valore, non solo economico, anche sociale e culturale.
Non voglio ripercorrere quanto già esaurientemente detto in un’altra discussione, mi limito a notare come se molte di quelle iniziative appaiono all’avanguardia ancora oggi, si può ben immaginare la portata innovativa che avevano in quel periodo storico; mi interessava più che altro focalizzarmi, a dimostrazione che le intenzioni dell’Olivetti non erano di cambiamenti di facciata bensì di sostanza, su come si sia andati verso l’adozione di modelli organizzativi innovativi, quali l’introduzione della settimana corta a stipendio invariato. Stipendio che, tra l’altro, era superiore del 20% ai minimi contrattuali.

Tornando a oggi, la responsabilità sociale d’impresa è invece data quasi per scontata, come un impegno che un’impresa (soprattutto una grande impresa) prende molte volte non perché convinta della bontà dei principi etici che ne stanno alla base, ma come “green-washing”, capitale reputazionale fine a sé stesso, non per interiorizzare realmente le preoccupazioni sociali.
E così anche il Gruppo FCA si è dotato di un Team di Sostenibilità, che è responsabile della diffusione della cultura della sostenibilità, della gestione dei rischi, dell’ottimizzazione dei costi, del coinvolgimento degli stakeholder e della valorizzazione della reputazione del gruppo.
Tutto ciò fa un po’ sorridere se si considera l’atteggiamento che poi è stato tenuto in vicende come il notorio caso FIAT del 2010, in cui piuttosto che migliorare gli standard legislativi e di contrattazione collettiva, garantendo quel di più che rappresenta un carattere tipico della RSI, si è andati invece a cercare di modificare gli standard contrattuali in peius danneggiando i lavoratori, che rappresentano una categoria di stakeholder deboli.

Senza voler fare di tutta l’erba un fascio, sembrerebbero almeno in un caso del genere fondate le preoccupazioni di alcuni sindacati in materia, che risulterebbero marginalizzati da un utilizzo perverso della responsabilità sociale dell’impresa.
Vorrei in proposito riportare la posizione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, che non pare sottovalutare la portata innovativa che la RSI può avere: i codici di condotta vengono visti dal più scettico dei tre sindacati confederali come un mezzo da affiancare, anzi includere nei contratti collettivi, in modo tale da non presentarsi come assunzione unilaterale, gentile concessione; in effetti, sembra ragionevole ritenere che l’inserimento in CCNL sia un mezzo efficace per la previsione e la garanzia di verifiche, attuazione. Insomma, per dirla in una parola: certezze.
Non viene marginalizzato nella visione di questo sindacato neanche lo strumento di una certificazione omogenea, il ricorso al quale dovrebbe essere totalmente volontaristico (spingendo però verso l’obbligatorietà per le grandi imprese: questo, unitariamente alla richiesta di controllo avanzata dal sindacato potrebbe essere un metodo per scongiurare le mere pratiche di “green-washing” rammentate sopra), e rispetto a cui il sindacato dovrebbe rimanere esterno per questioni di trasparenza.
Inoltre, viene rilevata la necessità della creazione di un forum multistakeholder a livello nazionale, e proposta la creazione di una lista nera per le imprese condannate per corruzione, reati di tipo economico, ambientale e sociale come lavoro minorile e sfruttamento.
La visione di UIL e CISL è chiaramente orientata nello stesso senso, anche se caratterizzata da una minore diffidenza nei confronti della RSI.

Per ritornare ai casi concreti, è possibile affermare (almeno nel caso sopra presentato) che siamo tornati indietro alla vecchia concezione per la quale, per dirla con Friedman e Hayek, l’impresa è un’entità economica e la sua responsabilità sociale è di incrementare i propri profitti (sotto le mentite spoglie della CSR, mera strategia di marketing), oppure c'è speranza di sopravvivenza in larga scala anche per una filosofia “olivettiana”, di una responsabilità sociale realmente configurabile come etica sia nei mezzi che nei fini, almeno in parte? Insomma, parlare di RSI oggi è soltanto dire “cose vecchie con il vestito nuovo”, cioè dare una forma più accattivante alla ricerca del massimo profitto approfittandosi dell’impatto generalmente positivo che questo genere di politiche hanno sull’opinione pubblica, oppure ha un senso più alto, più nobile?
E ancora, è possibile parlare di RSI come modello unitario o è più semplice e realistico declinarla in diverse varianti, inquadrandone alcune come ”bad” CSR, altre come “good” CSR, a seconda di come questo genere di pratiche volontaristiche si rapportano alle regole stabilite dalla contrattazione collettiva?

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Messaggio  0000723134 Mar Apr 05, 2016 8:39 am

Come già sottolineato attraverso gli esempi storici la responsabilità sociale d’impresa può essere declinata su due versanti principali: una prima concezione di responsabilità sociale vera e propria e un’altra versione in cui viene composta di azioni che svolgono il ruolo di strumenti finalizzati all’incremento del profitto.

Questa seconda visione della CSR è inevitabile nel momento in cui si assume che l’adesione a sistemi di responsabilità sociale è per definizione di tipo volontaristico, in quanto solo dando la possibilità di incrementare i profitti un’azienda sarà più predisposta ad assumere determinati comportamenti. Si tratta a mio avviso non tanto di mera strategia di marketing ma piuttosto della creazione di un sistema di tipo “do ut des”.

Prendiamo ad esempio un progetto in tema di CSR il cui bando per l’adesione aprirà la prossima settimana proposto dal Friuli Venezia Giulia . In questo caso il meccanismo di “do ut des” viene realizzato su due differenti livelli.  Da un lato la regione si ritrova ad avere un’area di dimensioni abbastanza estese a ridosso della città di Trieste riconosciuta come “area di crisi industriale complessa” a causa di molteplici problematiche relative alla produzione siderurgica e il recupero ambientale, dall’altro il mercato di aziende locali che inevitabilmente risente della crisi economica degli ultimi anni e non può permettersi investimenti in termine strettamente di responsabilità sociale.

Allora per conciliare le due esigenze sono stati costituiti dei progetti di Contributi a fondo perduto concessi con le modalità disciplinate dal Regolamento di attuazione della Legge regionale 20 febbraio 2015, n. 3 (RilancimpresaFVG), in questo modo la Regione assegna una quantità di contributi decisamente rilevante (si parla di un massimo di 2.000.000 € ad impresa) per la realizzazione di progetti di ricerca industriale e/o sviluppo sperimentale o innovazione oppure riconversione di aree industriali dismesse, a patto che l’impresa stessa operi mediante standard che potremmo definire di responsabilità sociale medio alti indicati nel bando.

In questo modo si realizza sia il meccanismo “do ut des” tra Regione e impresa in quanto entrambe alla fine riconoscono soddisfatte le proprie aspettative (la riqualificazione dell’area con una spesa inferiore rispetto a quanto normalmente necessario da un lato e la possibilità di fare nuovi investimenti e far partire facilmente progetti a lungo termine dall’altro) e allo stesso modo il meccanismo opererà anche tra impresa e lavoratori in quanto si innalzeranno così i servizi in termini sociali accompagnati da un incremento del livello occupazionale dell’azienda.
Secondo me quindi a questo punto non sarebbe corretto parlare di marketing della CSR o di una sua involuzione ma piuttosto di un adattamento di tipo evolutivo a quello che è il contesto attuale.

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Messaggio  0000724755 Mar Apr 05, 2016 5:09 pm

Gentile collega, tutto ciò che è riportato nel tuo intervento è vero e condivisibile anche per me.
Quello di cui tu stai parlando è però ancora, se vogliamo parlarne in questi termini, una versione fisiologica della RSI: vedo infatti il do ut des da te citato come pienamente legittimo in un contesto di economia di mercato in cui la fetta più grande delle imprese presenti appartiene al settore del for-profit, anzi, ben vengano progetti del genere: le istituzioni dovrebbero farsi secondo me attive promotrici di questo tipo di pratiche.
Quello che invece critico è la versione patologica, “bad”, della CSR, in cui l’impegno concreto di alcune grandi imprese nei confronti di alcuni stakeholder è compensato da una minore attenzione nei confronti di altri, utilizzando ciò magari anche (vedi il caso FIAT) per andare a peggiorare la normativa di hard law (in quel caso di rango contrattuale).
Potrebbero forse risultare efficaci le proposte presentate dal mondo delle associazioni sindacali per scongiurare questo uso “perverso” della RSI?

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Messaggio  773802 Gio Apr 07, 2016 6:06 pm

0000724755 ha scritto:Mi piacerebbe introdurre in questa discussione spunti di riflessione e dibattito riguardo al tema che secondo me è il vero punto cruciale della responsabilità sociale d’impresa, vale a dire le contraddizioni che è possibile si vengano a creare.

Per spiegare meglio quello che voglio dire, partirò dallo spunto che può dare in materia l’esperienza di Adriano Olivetti, per poi concentrarmi su un caso che potremmo definire come perlomeno controverso, vale a dire quello del Gruppo Fiat Chrysler Automobiles.

L’esperienza di Adriano Olivetti, che va grossomodo dal 1932 al 1960, parte dall’assunto che sia possibile trovare nell’attività di fabbrica qualcosa che superi, vada oltre alla semplice ricerca del profitto, al ritmo continuo e pressante di un insieme di macchinari; che sono rilevanti gli indici di profitto, ma allo stesso tempo per questi non possono essere lasciati indietro le relazioni con i dipendenti, il capitale umano, le responsabilità nei confronti del territorio e della comunità tutta (di quelli che oggi verrebbero detti stakeholder): Olivetti era un visionario, un illuminato, che vedeva nell’impresa un centro di creazione e diffusione di valore, non solo economico, anche sociale e culturale.
Non voglio ripercorrere quanto già esaurientemente detto in un’altra discussione, mi limito a notare come se molte di quelle iniziative appaiono all’avanguardia ancora oggi, si può ben immaginare la portata innovativa che avevano in quel periodo storico; mi interessava più che altro focalizzarmi, a dimostrazione che le intenzioni dell’Olivetti non erano di cambiamenti di facciata bensì di sostanza, su come si sia andati verso l’adozione di modelli organizzativi innovativi, quali l’introduzione della settimana corta a stipendio invariato. Stipendio che, tra l’altro, era superiore del 20% ai minimi contrattuali.

Tornando a oggi, la responsabilità sociale d’impresa è invece data quasi per scontata, come un impegno che un’impresa (soprattutto una grande impresa) prende molte volte non perché convinta della bontà dei principi etici che ne stanno alla base, ma come “green-washing”, capitale reputazionale fine a sé stesso, non per interiorizzare realmente le preoccupazioni sociali.
E così anche il Gruppo FCA si è dotato di un Team di Sostenibilità, che è responsabile della diffusione della cultura della sostenibilità, della gestione dei rischi, dell’ottimizzazione dei costi, del coinvolgimento degli stakeholder e della valorizzazione della reputazione del gruppo.
Tutto ciò fa un po’ sorridere se si considera l’atteggiamento che poi è stato tenuto in vicende come il notorio caso FIAT del 2010, in cui piuttosto che migliorare gli standard legislativi e di contrattazione collettiva, garantendo quel di più che rappresenta un carattere tipico della RSI, si è andati invece a cercare di modificare gli standard contrattuali in peius danneggiando i lavoratori, che rappresentano una categoria di stakeholder deboli.

Senza voler fare di tutta l’erba un fascio, sembrerebbero almeno in un caso del genere fondate le preoccupazioni di alcuni sindacati in materia, che risulterebbero marginalizzati da un utilizzo perverso della responsabilità sociale dell’impresa.
Vorrei in proposito riportare la posizione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, che non pare sottovalutare la portata innovativa che la RSI può avere: i codici di condotta vengono visti dal più scettico dei tre sindacati confederali come un mezzo da affiancare, anzi includere nei contratti collettivi, in modo tale da non presentarsi come assunzione unilaterale, gentile concessione; in effetti, sembra ragionevole ritenere che l’inserimento in CCNL sia un mezzo efficace per la previsione e la garanzia di verifiche, attuazione. Insomma, per dirla in una parola: certezze.
Non viene marginalizzato nella visione di questo sindacato neanche lo strumento di una certificazione omogenea, il ricorso al quale dovrebbe essere totalmente volontaristico (spingendo però verso l’obbligatorietà per le grandi imprese: questo, unitariamente alla richiesta di controllo avanzata dal sindacato potrebbe essere un metodo per scongiurare le mere pratiche di “green-washing” rammentate sopra), e rispetto a cui il sindacato dovrebbe rimanere esterno per questioni di trasparenza.
Inoltre, viene rilevata la necessità della creazione di un forum multistakeholder a livello nazionale, e proposta la creazione di una lista nera per le imprese condannate per corruzione, reati di tipo economico, ambientale e sociale come lavoro minorile e sfruttamento.
La visione di UIL e CISL è chiaramente orientata nello stesso senso, anche se caratterizzata da una minore diffidenza nei confronti della RSI.

Per ritornare ai casi concreti, è possibile affermare (almeno nel caso sopra presentato) che siamo tornati indietro alla vecchia concezione per la quale, per dirla con Friedman e Hayek, l’impresa è un’entità economica e la sua responsabilità sociale è di incrementare i propri profitti (sotto le mentite spoglie della CSR, mera strategia di marketing), oppure c'è speranza di sopravvivenza in larga scala anche per una filosofia “olivettiana”, di una responsabilità sociale realmente configurabile come etica sia nei mezzi che nei fini, almeno in parte? Insomma, parlare di RSI oggi è soltanto dire “cose vecchie con il vestito nuovo”, cioè dare una forma più accattivante alla ricerca del massimo profitto approfittandosi dell’impatto generalmente positivo che questo genere di politiche hanno sull’opinione pubblica, oppure ha un senso più alto, più nobile?
E ancora, è possibile parlare di RSI come modello unitario o è più semplice e realistico declinarla in diverse varianti, inquadrandone alcune come ”bad” CSR, altre come “good” CSR, a seconda di come questo genere di pratiche volontaristiche si rapportano alle regole stabilite dalla contrattazione collettiva?


Vorrei porre l’accento su ulteriori aspetti in riferimento ai quali i sindacati negli ultimi anni insistono particolarmente in tema di RSI, che sono sostanzialmente quello della necessità di allargare gli orizzonti della contrattazione tra le parti sociali, estendendo il proprio raggio d’azione dall’ambito locale a quello internazionale, e quello dell’esigenza di una esternalizzazione dei processi e delle modalità premiali delle imprese socialmente responsabili, abbracciando sempre più la via contrattualistica e cercando di concretizzare l’idea per cui la responsabilità sociale dell’impresa va trasformata in “un processo” partecipato e condiviso dentro e fuori la comunità d’impresa.
Quanto al primo aspetto, con sempre più decisione  i tre sindacati confederali italiani vanno sottolineando come sebbene la contrattazione locale (aziendale, distrettuale…) sia fondamentale per la gestione dei progetti di welfare aziendale, questa non è più sufficiente al giorno d’oggi,  in quanto in un’economia globalizzata, che si basa fondamentalmente su scambi internazionali, anche le regole e i contratti devono essere globali; la sfida che ora deve affrontare il sindacato è dunque quella di superare la contrattazione nazionale, da alcuni vista come ormai perdente(tra le ragioni, si dice: la contrattazione collettiva di livello nazionale difficilmente può costituire un argine nei confronti di imprese multinazionali che operano su uno scacchiere più ampio di quello “controllabile” dai processi contrattuali collettivi nazionali),  per arrivare a definire accordi internazionali di una certa cogenza. In questo senso si prenda a modello di un preciso orientamento sindacale il parere, rilasciato in un’intervista del novembre 2015, del segretario confederale della CISL, Maurizio Petriccioli, alla guida del Dipartimento di democrazia economica, economia sociale, fisco, previdenza e riforme istituzionali: “La responsabilità sociale dell’impresa deve interessare il sindacato e deve essere incorporata all’interno dei processi contrattuali. Ma di quali processi contrattuali? La mia risposta è che la pretesa di ingabbiare, regolare o codificare i comportamenti “sociali” dell’impresa, all’interno dei processi contrattuali nazionali è limitata e perdente. Limitata perché l’impatto sociale dell’impresa,(..), assume dimensioni internazionali. Perdente, perché l’evoluzione tecnologica e dei processi commerciali consente all’impresa di spostarsi da un Paese all’altro ricercando le migliori convenienze di natura fiscale e di diritto del lavoro, vanificando le regole poste con la contrattazione nazionale o aziendale di prossimità o regionale. Siamo immersi dentro una competizione globale che coinvolge anche il mondo del lavoro ma siamo sprovvisti di regole del lavoro globali. Con la conseguenza che l’impresa locale che accetta di essere “socialmente responsabile” spesso si trova a soccombere di fronte alla concorrenza di “imprese socialmente irresponsabili”. Per questo occorre una “globalizzazione delle regole”, dei codici e dei comportamenti, anche di quelli liberamente e volontariamente assunti dall’impresa”. (l'intervista completa, che risale al 10 nov.2015, si trova sul sito di secondowalfare.it ).
L’altro aspetto su cui si insiste è quello di un approccio contrattuale forte alla rsi, dove rilanciare potentemente il fattore reputazionale, in quanto la reputazione è uno dei principali fattori che spinge un’impresa a stipulare accordi su questioni sociali e ambientali, per cui le scelte d’acquisto possono influire notevolmente sui comportamenti delle aziende. In questo modo ad essere rilanciato- a parer mio, nell’ottica se non proprio di un ribaltamento almeno di un ribilanciamento rispetto alla tradizionale visione “impresocentrica” ovunque imperante- è il ruolo dei cittadini, i quali- si dice-possono e devono scegliere di premiare e incentivare le imprese socialmente responsabili acquistando i loro prodotti. Ovviamente, questo però comporta oneri per il cittadino che deve informarsi sulle diverse imprese e sui loro comportamenti, e deve poi rischiare di acquistare prodotti a un prezzo più alto; d’altronde, pure il tema della certificazione e del controllo degli aspetti sociali e ambientali presenta un costo; L’approccio contrattuale potrebbe allora consentire di limitare tali costi, in pratica creando “valore reputazionale” (un vero e proprio riconoscimento reputazionale per chi adotta comportamenti socialmente responsabili), anche grazie al coinvolgimento, rigorosamente non autoreferenziale, dei diversi stakeholder.  Forte e mi sembra anche unanime fra i sindacati, è infatti  l’idea per cui l’uso dello strumento contrattuale può consentire di garantire un accettabile compromesso fra volontarietà e non autoreferenzialità  tramite la procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore,  che è tanto più efficace per un sistema  di dialogo sociale e di relazioni negoziali  e partecipative da sviluppare a tutti i livelli,  quanto più si consideri  che questa produzione normativa costituirebbe un “bene meritorio” anche per gli stakeholder non coinvolti nel processo contrattuale.
Per concludere, riporto semplicemente  un estratto dell’intervista al segretario confederale CISL che sopra citavo, dove  si concentrano in particolare alcuni profili critici che vengono sollevati dall’intervistato e che sono ricchi di spunti riflessivi,  a proposito di promozione e sviluppo (virtuoso?) della RSI, e di concetti come “investimento responsabile” e “finanza etica”.
"Successivamente alla strategia comunitaria, i vari Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno varato piani nazionali. Il Piano d’Azione Nazionale per la Responsabilità Sociale d’Impresa promosso congiuntamente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero dello Sviluppo Economico, prevede diversi obiettivi volti sia a favorire la pratica della Responsabilità Sociale d’Impresa presso le aziende, sia politiche pubbliche stimolanti, sia disincentivare pratiche scorrette o ingannevoli da parte delle aziende, sia migliorare il rapporto tra aziende, comunità locali e terzo settore. La Cisl ha partecipato all’elaborazione del Piano? Come lo valuta? Ormai la fase d’attuazione è conclusa, gli obiettivi possono dirsi almeno in parte raggiunti? Ritiene che le istituzioni italiane possano fare di più per promuovere la Responsabilità Sociale d’Impresa?"
"La RSI non è il puro rispetto delle regole ma non è nemmeno il semplice monitoraggio o l’elenco delle buone pratiche e dei casi di studio. Se guardiamo alle linee guida alle multinazionali dell’OCSE o ai principi dell’Organizzazione Internazionale del lavoro e ai ritardi che constatiamo nella loro applicazione, se guardiamo al problema del rispetto delle condizioni nuove di sopravvivenza in alcune zone degradate del mondo, sappiamo che il puro rispetto delle regole è già un risultato, è già un obiettivo.
Ci sono imprese anche nazionali che si qualificavano come socialmente responsabili e i loro abusi e i loro disastri hanno coinvolto e travolto la fiducia di centinaia d’investitori e stakeholder.
Il Piano d’Azione Nazionale per la Responsabilità Sociale d’Impresa ha rappresentato sicuramente uno strumento importante soprattutto per definire come oggi la responsabilità sociale viene vissuta dalle imprese italiane, per operare una moral suasion, favorire, cioè, un clima e un contesto culturale atto ad impiantare la RSI, per fare il punto sull’applicazione dei codici di condotta e delle linee guida OCSE e soprattutto per creare un’occasione di confronto fra i diversi soggetti rappresentativi del mondo del lavoro, dei consumatori e delle imprese.
Tuttavia, è necessario fare qualcosa di più sul versante della prevenzione e della sanzione degli abusi perché al riconoscimento reputazionale per chi adotta comportamenti socialmente responsabili deve accompagnarsi la sanzione reputazionale per chi commette abusi o diffonde informazioni non corrette o che possono alterare la concorrenza. Si può fare dando vita a sedi, tavoli permanenti di confronto e monitoraggio non solo istituzionali e non solo centrali, adeguando progressivamente le regole istituzionali (diritto societario, trasposizione delle direttive) per favorire e per ristimolare la RSI."


"Secondo lei, in Italia vi è un buon sviluppo della RSI? Sono numerose le imprese che hanno pratiche responsabili serie e strutturate? Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione? Può fare esempi virtuosi?"
"No, in Italia, così come in Europa e nel mondo, non c’è ancora un buono sviluppo della RSI.
Non dobbiamo nasconderci, infatti, che molte imprese che si sono approcciate alla RSI hanno fatto non per convinzione ma per prevenire rischi o danni legati all’immagine della condotta aziendale. Le imprese che hanno intrapreso i percorsi di responsabilità sociale più interessanti sono quelle in cui i consumatori hanno avuto la possibilità di conoscere e di controllare l’intera filiera del processo produttivo e commerciale (Nike, Adidas ecc.), o nelle quali i consumatori stessi hanno assunto la qualità di soci.
Ma i consumatori compreranno i prodotti più sostenibili? Premieranno sempre le imprese che più seriamente adottano comportamenti di responsabilità sul piano sociale e ambientale? Agire sul versante del consumo responsabile, per il sindacato, significa ricercare una rinnovata alleanza con i consumatori e che inglobi sempre di più nelle sue strategie contrattuali e nella sua sfera di attenzione strumenti quali il bilancio sociale, il marketing, l’attenzione verso profili “extracontrattuali” quali l’ambiente, il fisco, la previdenza, il welfare aziendale.
Ecco che abbiamo bisogno di sostenere l’impresa responsabile non solo dal lato del consumo dei beni e servizi prodotti ma anche da quello del finanziamento dei suoi processi produttivi, il che ci porta a considerare il secondo versante d’azione che è quello dell’investimento responsabile. In un’epoca in cui gli scandali finanziari sono all’ordine del giorno ed il capitalismo fatica a trovare una nuova rotta, la responsabilità sociale dell’impresa può “pagare”, anche in termini di nuove opportunità per le imprese, anche dal lato “finanziario”. Lo sviluppo della “finanza etica” tramite i fondi comuni dedicati e l’investimento socialmente responsabile dei fondi pensione possono generare “valori” e nuove leve competitive importanti anche dal lato delle opportunità di “capitalizzazione” e di finanziamento delle imprese".

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Messaggio  0000349987 Mer Apr 27, 2016 4:59 pm

Vorrei partire dalla domanda molto interessante proposta dal collega in merito a " Se c'è una speranza di sopravvivenza su larga scala della "filosofia" così detta "Olivettiana" di una responsabilità sociale o se invece oggi le pratiche di RSI sono viste come mere strategie di mero marketing per incrementare i profitti?"
Credo che la problematica della responsabilità sociale d'impresa tra le imprese che davvero fanno "good CSR" e quelle che invece, al contrario, utilizzano queste pratiche solo come cambiamento di pura facciata sia alquanto centrale anche ricordando il requisito fondante della responsabilità sociale d'impresa, cioè la volontarietà.
Un utile provvedimento per promuovere e aiutare le imprese che investono nelle vere e sostanziali pratiche di responsabilità sociale può essere quello della introduzione delle liste nere per le imprese condannate per corruzione, per reati di tipo economico, ambientale e sociale, ovviamente possono solo ,come primo passo, cercare di togliere la maschera a quelle imprese che delle pratiche di RSI ,invece, le utilizzano solamente come strategie pubblicitarie al fine di incrementare semplicemente i profitti; insieme, però, a incentivi e premi mirati a individuare davvero le imprese che fanno così dette "good CSR" credo si possano, forse, se non eliminare ma ostacolare concretamente quelle imprese che in quella "filosofia Olivettiana" non credono e non mirano affatto.
In questo giocano anche un forte ruolo e di primaria importanza gli stessi consumatori che con scelte più consapevolmente orientate potrebbero far scegliere alle imprese una direzione, anche per i loro guadagni, molto più verso le "good CSR" che invece alla mera strategia di marketing.

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